La proposta di un magistrato
Facciamo ripartire la giustizia con un “piano regolatore”

Stando ai dati del 2016, una causa civile in Italia dura in media 1120 giorni, più del doppio della media Ocse dei Paesi sviluppati (583 giorni). Per una sentenza di bancarotta si arriva fino a dodici anni e, prima che un istituto di credito possa recuperare le garanzie reali in caso di fallimento, passano in media sette anni. L’Italia ha poi il penoso record del più alto numero di condanne comminate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per violazione del diritto alla ragionevole durata del processo. Nel 2015 gli stati più virtuosi erano la Norvegia e la Danimarca, mentre all’ultimo posto c’era il Venezuela. L’Italia si è piazzata al trentesimo posto, dopo Paesi come Repubblica Ceca, Polonia, Uruguay, Costa Rica, Slovenia e Georgia. Suddividendo gli Stati in quattro gruppi basati sulla ricchezza, il nostro si posiziona al ventottesimo posto della classifica dei trentuno a più alto reddito pro capite.
Numerose e complesse sono le cause della perenne crisi in cui versa il sistema giudiziario italiano. In particolare, la questione riguardante la riforma della geografia giudiziaria è stata oggetto di attenzione da parte del legislatore che è intervenuto con il decreto legislativo 155 del 7 settembre 2012, attuativo della legge delega 148 del 14 settembre 2011. Tale provvedimento dispose la soppressione di 31 Tribunali e di altrettante procure della Repubblica, oltre a quella di 220 sezioni distaccate. Pur ritenuta da molti osservatori come una riforma timida (per esempio, per avere previsto il mantenimento di almeno tre Tribunali anche nei distretti di Corte di appello di piccole dimensioni e per aver soppresso in via definitiva “soltanto” 31 Tribunali), quella di cui al decreto legislativo 155 va segnalata quale svolta storica, sia per aver realizzato per la prima volta una modifica dell’assetto territoriale degli uffici giudiziari sia per avere istituito il Tribunale di Napoli Nord, composto dal territorio di alcune sezioni distaccate soppresse, già facenti parte del Tribunale di Napoli e del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere.
Eppure, la coperta resta sempre troppo corta e anche tale riforma non è servita a risolvere i problemi atavici della giustizia italiana, primo tra tutti quello della ragionevole durata del processo. D’altra parte, che la durata dei processi costituisca una preoccupazione mondiale e non solo italiana, lo ha ricordato già qualche anno fa uno studioso brasiliano (P. Hoffman, Razoável duração do processo, São Paulo, 2006) il quale, nello studiare l’esperienza italiana alla ricerca delle cause che ostacolano la piena realizzazione del principio della ragionevole durata del processo nel nostro Paese, non ha esitato a indicare nella carenza degli organici dei magistrati e degli ausiliari e nella mancanza di un appropriato apparato tecnologico i difetti che impediscono al processo civile italiano di decollare e di diventare veramente moderno. Mancanza di risorse e cattivo utilizzo di quelle esistenti. Questi i mali atavici della giustizia italiana. Ma non solo.
Nel corso della mia non breve esperienza di ispettore ministeriale, ho avuto modo di toccare con mano le disfunzioni della giustizia sia civile che penale. Disfunzioni che – al netto, ovviamente, delle responsabilità dei singoli magistrati e dei dirigenti degli uffici giudiziari – costituiscono il retaggio di un modello di distribuzione sul territorio della giurisdizione storicamente superato: è illusorio pensare di applicare la misura standard di un ufficio giudiziario (quindi né troppo piccolo né troppo grande) a un territorio, come quello della Repubblica, che presenta difformità notevolissime e che soprattutto esprime peculiarità diverse in ogni area del Paese (si pensi, per esempio, alla necessità di assicurare un presidio di legalità alle zone più infestate dalla criminalità organizzata).
Ma soprattutto, la giustizia arranca perché è vittima, come gli altri comparti della pubblica amministrazione, del solito vizietto italico: la burocrazia. L’Italia ha il record mondiale della produzione legislativa. La bulimia del Parlamento si traduce in migliaia e migliaia di leggi spesso inutili e contraddittorie. A volte leggere un testo di legge è un’opera faticosissima. Non vi è comma o articolo che non rinvii a un diverso comma di un altro articolo di una ulteriore legge e così via, fino a quando, a forza di rinvii su rinvii, non finisci per dimenticare da dove hai iniziato e che cosa diamine stessi cercando. Il risultato è che spesso il significato di una norma è talmente involuto e criptico da risultare incomprensibile anche agli addetti ai lavori. Bizantinismi e incertezze interpretative finiscono per alimentare la libidine di burocrati e azzeccagarbugli di ogni genere, alla faccia della certezza del diritto e della prevedibilità delle decisioni dei giudici. Il risultato sono le valanghe di cause che vanno a intasare i Tribunali e le Corti di appello, cause spesso interminabili e dall’esito incerto.
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