Da tempo, e da ultimo in occasione dell’insediamento del governo Draghi, sentiamo ripetere uno dei mantra della lamentazione sul declino italico: la giustizia lenta è un macigno su pil e commercio estero; per trasformare la macchina arrancante in motore performante ci vuole il manager che assicura decisioni veloci e prevedibili.
Dinanzi a questa tesi (piuttosto trita) constato tre reazioni.
La prima, di parte della magistratura, vuole che si dimostri che, soprattutto nell’era post-Palamara, sia stato intrapreso un nuovo corso, più attento alle necessità della giustizia, a beneficio di magistrati e cittadini. La seconda reazione è insofferente al discorso del manager in tribunale. La terza, pur ritenendo inadeguato il richiamo salvifico al manager, non vuole neppure arroccarsi nella difesa d’ufficio delle inefficienze della giustizia. Ogni posizione ha un fondo di verità. Resta al centro della vicenda, tuttavia, una drammatica torre di Babele che non è però frutto della punizione divina. Non è questione di volere o meno l’efficienza, ma di che efficienza si vuole per la giustizia e dunque, a monte, di che giustizia vogliamo.
Un obiettivo di mera quantità può fare a meno di un ordine giudiziario prescelto per concorso e attingere a strumenti burocratici, ivi compresa l’intelligenza artificiale. Non credo sia questa un’idea di giustizia condivisa. Tra i diritti umani fondamentali c’è il diritto al giudice: lo dice magistralmente nel 2012 uno dei giudici della Corte internazionale di giustizia, Cançado Trindade, quando, in minoranza, dà ragione ai giudici italiani che avevano negato l’immunità dello Stato tedesco, condannandolo a risarcire gli eredi delle vittime dell’occupazione nazista.
Le comunità umane aspirano alla decisione giusta tra due contendenti e tra vittima e carnefice: le condizioni per attuarla sono la competenza di chi giudica e la sua imparzialità, che si traduce nell’ascolto delle parti, nella ponderazione, nella motivazione del risultato. Tutto questo non ha niente a che fare col manager, o con la logica d’impresa. Bellissimo, mi direte: ma l’inefficienza? Ne possiamo registrare (almeno) due tipi. Una minor, attinente a sciatterie organizzative tipiche della pubblica amministrazione: per questo, però, abbiamo già dirigenti amministrativi e presidenti di Tribunale e l’andamento della loro gestione può e deve essere adeguatamente valutato.
Poi c’è l’inefficienza major: la durata del processo. Qui la ricetta è triplice: definire uno standard di rendimento dei magistrati; in base a questo, ridisegnare le piante organiche dei tribunali; su questi fondamenti (non esaustivi, ma rilevanti) rendere snella ed effettiva la valutazione di professionalità dei magistrati, oggi un simulacro burocratico. Un lavoro serio sui primi due punti darebbe risultati sorprendenti, in sé e se paragonati al resto d’Europa. È un caso che la triplice ricetta ingiallisca negletta da almeno venti anni, mentre primi ministri, ministri e vertici vari si scambiano sguardi d’intesa appassionatamente manageriali?
Il problema di una mancanza di standard di rendimento del magistrato – che è previsto da una norma dell’ordinamento giudiziario inattuata dal Csm dal 2006 – e l’ulteriore, e connesso, problema di una geografia giudiziaria iniqua e totalmente inefficace, sono evidentissimi nei Tribunali campani. Tribunali “di frontiera”, essenziali alla vita sociale, centrali per la varietà e rilevanza di interessi economici, e criminali, coinvolti, punto di riferimento di realtà territoriali di altissima densità abitativa – e mi riferisco ai Tribunali di Nola, Napoli Nord, Santa Maria Capua Vetere e Torre Annunziata – sono endemicamente in affanno, perché sottodimensionati. Il caso più tragico è il più recente, con l’istituzione del Tribunale di Napoli Nord, già condannato alla nascita alla produzione di arretrato o comunque di affanno strutturale nell’affrontare le sfide enormi del territorio oggetto della sua giurisdizione.
Ma quei Tribunali sono anche inondati di una quantità di processi civili e penali impressionante. Ruoli di udienza civili e penali con trenta, quaranta processi a udienza, semplicemente ingestibili, eppure fronteggiati, spesso eroicamente, silenziosamente e anche in una grande solitudine dei singoli magistrati. L’avvocatura tutto questo lo sa benissimo. Tutti gli attori e i protagonisti di buona volontà conoscono che il problema è monitorare il rendimento dei magistrati e l’afflusso della domanda di giustizia. E sanno che occorre fissare uno standard unitario e nazionale di rendimento del magistrato civile e penale: esso consentirebbe di evidenziare l’urgenza della riorganizzazione della pianta organica dei Tribunali italiani e, probabilmente, uno strutturale eccesso di domanda di giustizia. Inseguire l’efficienza di per sé, solo numerica, e senza soluzioni di sistema e d’insieme, è soltanto una mistificazione, offensiva per il cittadino, prima ancora che per l’avvocatura e per la magistratura.