Fa talmente caldo, in questi giorni, che persino il Pd rischia di sciogliersi. I giornali pubblicano la mappatura delle correnti quasi cercando di fotografare l’attimo fuggente. Perché tra soli tre mesi i dem potrebbero trovarsi a fare i conti con uno scenario già del tutto diverso: i riformisti annaspano alla ricerca di nuove sponde, stretti tra le posizioni pro-Pal su Israele e pacifiste sull’Ucraina. E poi ci sono le regionali in arrivo per l’autunno: le elezioni in Veneto vengono già date per perse. Quelle in Campania – escluso ormai ufficialmente il ritorno di Vincenzo De Luca – sono una grande incognita. E perfino nelle Marche, dove la candidatura dell’ex sindaco di Pesaro, Matteo Ricci, sembrava avviata al successo, la partita si è del tutto riaperta.

Un sondaggio Dire-Tecné, con 6300 intervistati tra gli elettori marchigiani, alla domanda sul candidato presidente che voterebbe oggi tra Francesco Acquaroli del centrodestra e Matteo Ricci del centrosinistra, si esprime a favore del primo con una forbice tra il 50,5 e il 54,5%, mentre per Ricci si va dal 45,5 al 49,5%. Complice di questa imprevista discesa libera nei consensi è la nuova scelta di campo di Ricci. L’enfant prodige delle più sfolgoranti Leopolde, punto di riferimento di Matteo Renzi nelle Marche, ha riscoperto un’anima di sinistra-sinistra. Dopo aver ricevuto la benedizione di Goffredo Bettini già in campagna elettorale, Ricci è diventato il portabandiera del pacifismo nel gruppo socialista e democratico europeo, e per il suo programma da Governatore vuole chiudere a termovalorizzatore e rigassificatori. Un riposizionamento che ha spiazzato gli elettori riformisti nella quarta regione manifatturiera d’Italia.

Elly Schlein sta pensando di portare a casa un risultato spendibile per calciare in tribuna la palla del congresso, convocando una riunione estiva della Direzione. A frenare, inaspettatamente, è il presidente del partito Stefano Bonaccini, che sa bene come questa volta la sua corrente potrebbe spaccarsi e non seguirlo. Giorgio Gori, Filippo Sensi, Lia Quartapelle, Lorenzo Guerini, Pina Picierno, Simona Malpezzi e gli altri non sono più disposti a correre in bagno, o sulla terrazza del Nazareno per una telefonata urgente, al momento del voto. Per permettere a Schlein di poter dire che «la Direzione ha deciso all’unanimità», com’era successo con la votazione sul Jobs Act. Schlein d’altronde non si tiene: tornata trionfante dal Pride di Budapest, sta girando l’Italia da una Festa de L’Unità all’altra. Con un racconto ricorrente: «Torniamo a svettare dopo aver toccato l’abisso».

Attenzione: chi si loda, s’imbroda. Così mentre la segretaria Dem Elly Schlein si celebra per aver portato il Pd “fuori dal baratro” (se la prende così con Zingaretti, che la sostiene. E con Enrico Letta), qualcuno va a vedere di cosa si sta parlando in termini di voti assoluti. Il Pd del “baratro”, quello che alla Camera dei deputati nel 2022 ha preso il peggior risultato di sempre, aveva 5.348.676 voti. Con la tanto decantata cura Schlein, alle ultime europee, il Pd ha ricevuto 5.613.769 voti. Un po’ di più, certo, una variazione positiva. Ma numeri che non stravolgono affatto i flussi, consolidando solo di poco il consenso dem e che andrebbero dunque accompagnati da una maggiore sobrietà. Lo richiama anche uno dei fondatori stessi del Pd, l’ex ministro prodiano della Difesa, Arturo Parisi: «Pur plaudendo alle percentuali, non dimenticherei i voti assoluti». Non può certamente essere male interpretato, per chi conosce la politica, il segnale che dà la gemmazione di sempre nuove correnti interne. L’ultima arrivata in ordine di tempo è stata varata l’altro ieri con tanto di madrine e padrini d’eccezione: Marco Tarquinio, europarlamentare da poco sbarcato a Bruxelles, Paolo Ciani, vicecapogruppo dem alla Camera, e Stefania Proietti, governatrice dell’Umbria.

Si chiama «Rete civica e solidale» e mette la pace al centro del suo manifesto — anche se, sussurrano i maligni, nel cuore ci sarebbe pure un certo afflato filo-russo. Un passo indietro e troviamo la creatura politica di Alessandro Onorato, assessore capitolino ai Grandi Eventi con un passato nella lista Marchini e un presente in equilibrio tra dentro e fuori il Pd. A dargli una mano non proprio invisibile è il già citato Goffredo Bettini, autentico demiurgo delle correnti più creative del campo largo. Salendo ancora la scala temporale si arriva ai comitati «Più uno» di Ernesto Maria Ruffini, ex direttore dell’Agenzia delle Entrate, altra sigla borderline che danza sul confine tra ortodossia democratica e ambizioni extra-Pd. A sostenerlo, oltre a una pattuglia di ex parlamentari dem, ci sarebbe — dicono i beninformati di Montecitorio — nientemeno che Romano Prodi in persona.

«La sinistra si è allontanata dai problemi delle persone», aveva bacchettato il Professore nei giorni scorsi. E se l’indignazione di milioni di italiani verso la malagiustizia cresce, il Pd prende una posizione ostinata e contraria. Una ex azzurra come Beatrice Lorenzin ieri in aula ha attaccato a testa bassa la separazione delle carriere. «Con questa riforma non si realizza il giusto processo, si affossa la terzietà del giudice e si mette il pubblico ministero sotto l’influenza del potere esecutivo. Si va a intervenire su un tema che, inoltre, era già stato trattato con la riforma Cartabia, grazie alla quale, senza stravolgere l’assetto costituzionale, è stata tracciata una netta separazione delle funzioni, rafforzando le garanzie del giusto processo», ha detto Lorenzin, vice presidente dei senatori PD, intervenendo in Aula durante la discussione sul Ddl costituzionale sulla separazione delle carriere.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.