Tattica, tattica e ancora tattica. Un gigantesco tavolo di poker – a distanza ovviamente – tra palazzo Chigi, le segreterie dei partiti, Montecitorio e Senato. Tutti hanno tenuto le carte in mano a suon di vedo, non vedo e rilanci. Dopo una giornata di notizie false, vere e poi smentite Giuseppe Conte ha fatto l’unica mossa ancora disponibile per evitare lo scacco matto di una crisi che per lui sarebbe stata a quel punto “chiusa”, senza ulteriori sblocchi. Stamani il presidente del Consiglio, dopo un veloce consiglio dei ministri alle 9, salirà al Quirinale dal presidente della Repubblica per rassegnare le dimissioni.

Che il premier immagina blindate, ovattate e di facciata visto che è convinto di procedere verso il Conte ter. Partendo dallo stesso “recinto politico“ del Conte 2. Con dentro Italia viva seppure nel tempo destinata a essere sempre più irrilevante. In aggiunta a quegli “inaffidabili” di Italia viva, il premier si è detto convinto, ancora ieri e lo ripeterà stamani al Capo dello Stato, di poter coinvolgere in maggioranza un nuovo gruppo politico destinato nel tempo a crescere nei numeri. Questo il piano che Giuseppe Conte ha condiviso ieri pomeriggio in una riunione ristretta con un gruppo di ministri, Gualtieri, Boccia e Franceschini per il Pd, Bonafede, Patuanelli e Catalfo per i 5 Stelle. Verso le 19 Franceschini ha riunito gli altri ministri Pd e altrettanto ha fatto Bonafede con la delegazione 5 Stelle.

Però conviene andare a piccoli passi. Le crisi di governo sembrano sempre uguali a stesse. Hanno un inizio e una fine. Ma nessuna è mai uguale all’altra. E questa è certamente più diversa da tutte le altre. Perché sullo sfondo prende forma sempre di più un’altra mossa. La “mossa del cavallo” di Matteo Renzi che da “sconfitto” e “politicamente morto” sembra portare a casa quello che ha sempre chiesto: la svolta nel governo, nella squadra e nell’agenda. Con o senza Conte.

Un secondo dopo le dimissioni, unico arbitro della partita diventa il presidente della Repubblica che da oltre un mese segue giorno dopo giorno, sempre in silenzio e con l’unica arma della moral suasion una crisi iniziata il 7 dicembre quando Italia viva denunciò l’inesistenza del Recovery plan e i progetti di gestioni che escludevano Parlamento, ministeri e pubblica amministrazione. È iniziato tutto quel giorno. In realtà era iniziato molto prima: almeno da settembre, dopo il successo alle regionali il Pd ha iniziato a chiedere “svolte”, “cambi di passo” e “una squadra di governo più idonea a questa fase”. Poi Renzi ha deciso che il tempo dell’attesa era finito. “Se non ora quando? Rischiamo di buttare l’occasione del Recovery plan e non ci possiamo rendere complici del più grande spreco di sempre”.

Una volta in campo l’arbitro-presidente, pur non essendo previsto un percorso obbligatorio ed essendo possibili invece molte variabili, è più che probabile che Mattarella apra le consultazioni al Quirinale per ascoltare, rispettare e onorare il ruolo e il peso di tutti i gruppi parlamentari a cominciare da quelli delle opposizioni. Ed è solo nel segreto del rito, mai scontato, delle consultazioni che lo schema-Conte sarà confermato. Oppure ribaltato. Quante volte un leader politico è entrato “papa” ed è uscito “cardinale”.

A questo punto conviene far salire in cattedra il professor Ceccanti, costituzionalista, deputato del Pd e presidente del Comitato parlamentare per la legislazione. Con le dimissioni e l’apertura formale della crisi, “pur non essendoci certezze”, si possono “ipotizzare tre tipi ideali di scenario”. Il primo è che “il Presidente del Consiglio uscente possa dimostrare agevolmente di avere una maggioranza operativa in entrambe le Camere: in tal caso dovrebbe avere un incarico a breve per succedere a se stesso”. Il secondo, “opposto, è che palesemente non abbia i numeri ed in tal caso è da attendersi una gestione più lenta e non facilmente prevedibile in termini di possibili incarichi”. Una terza ipotesi, intermedia, “potrebbe essere quella di una maggioranza intorno al Presidente uscente, ma non del tutto convincente. In casi come questi si ricorre di solito a pre-incarichi (in questo caso sempre all’uscente) o a mandati esplorativi a personalità istituzionali”.

Ufficialmente il Movimento 5 Stelle blinda quella di un Conte ter come unica opzione. «Siamo la colonna della legislatura e siamo convintamente al fianco di Conte», ha ripetuto ieri sera il capo politico Vito Crimi. Ma non sono le sue parole quelle che vanno pesate. Piuttosto quelle di Luigi di Maio che domenica aveva dato “48 ore a Conte per decidere cosa fare e uscire dallo stallo”. E quelle di molti altri parlamentari 5 Stelle convinti che comunque «il Conte bis è al capolinea. Doveva muoversi prima. Intorno a lui non c’è una maggioranza ed è completamente ingessato».

I parlamentari 5 Stelle hanno mal sopportato una settimana di trattative per conquistare qualche voto in qua e in là. Il Pd dopo almeno tre giorni passati ad attaccare Matteo Renzi “inaffidabile”, “irresponsabile” e nelle cui trame “c’è l’omicidio politico del Pd” nella speranza di spaccare i gruppi e conquistare voti, ieri si è mosso su almeno tre direttrici diverse. Ulteriore riprova del malcontento interno e di chi non ha mai avuto dubbi che “tra Conte e Renzi, sia meglio l’ex segretario”. In mattinata il segretario ombra Goffredo Bettini aveva detto che «l’ipotesi di trattare nuovamente con Italia viva sarebbe passata dall’ammissione dell’errore commesso dall’ex leader del Pd». Un paio d’ore dopo il segretario Zingaretti ha voluto chiarire che «il Pd è il partito del fare e non delle elezioni anticipate. Che sono state invece la minaccia brandita a reti unificate negli ultimi giorni sempre nella speranza di convincere gli indecisi a passare nel nuovo gruppo politico dei Responsabili/Volenterosi. Un gruppo di deputati e senatori si muove, al di là dei diktat della segreteria, verso una ricomposizione della maggioranza e una nuova agenda per i restanti due anni di legislatura.

«Conte dovrebbe dimettersi, aiuterebbe a sbrogliare la matassa e rafforzerebbe anche lui», ha detto il senatore Tommaso Nannicini, il più attivo in questi giorni per una ricucitura. Le dimissioni sono il passo che Conte avrebbe dovuto fare, e aveva ricevuto numerosi auspici in tal senso, il 13 gennaio, giorno in cui la delegazione di Italia Viva è uscita dalla maggioranza e dal governo accusando l’esecutivo di cui faceva parte di “immobilismo”. Invece ha voluto contarsi in aula. Perdendo. Poi, ancora convinto della propria autosufficienza, si è lanciato nella costruzione del governo Conte-Mastella nobilitando i Responsabili in Costruttori e Volenterosi, la famosa “quarta gamba” in grado di rimpiazzare Italia viva. Ma la quarta non c’è.

Almeno non prima della formazione di un nuovo governo, visto che Udc e i centristi, da Idea (Quagliariello) a Cambiamo (il gruppo di Toti), a Noi per l’Italia (Maurizio Lupi) e Forza Italia (come ha ribadito ieri una volta di più Silvio Berlusconi) hanno ribadito di non essere disponibili a sostenere un Conte ter. Diverso è se, “con una grossa discontinuità” (cioè senza Conte) si dovesse dare vita a un governo allargato anche al centro con un piano di legislatura scritto e condiviso. Esplicito ieri un tweet del senatore Andrea Cangini (Fi): «Conte è stato sovranista con Salvini, populista con Di Maio, europeista con il Pd e ora democristiano con i centristi. Un camaleonte capace di tutto che non crede in nulla». I centristi quindi potrebbero tornare in gioco se e quando le consultazioni dovessero cambiare lo schema previsto da Conte e supportato da Pd e M5s. Oppure nel caso in cui Conte «dovesse lavorare ad una maggioranza politica e contemporaneamente cercare una maggioranza allargata per un vero piano di riforme». È uno scenario che mette sul tavolo il senatore Gaetano Quagliariello (Idea), uno che al centro sa bene come toccare la palla.

Non interessa qui dire chi abbia vinto o perso tra Conte e Renzi che ha certamente il merito di aver smosso la palude in cui si muoveva il governo. Di sicuro Conte ha dovuto cedere di fronte alla giustizia. Lo scoglio della relazione Bonafede sullo stato della giustizia è risultato alla fine non aggirabile. E a ben vedere tutto torna in questa storia. È la giustizia uno dei più importati nodi irrisolti della maggioranza e del Recovery plan visto che è una delle tre riforme strutturali necessarie per il rilancio del paese (con pubblica amministrazione e semplificazione). Il Conte 2 aveva già rischiato due volte per blindare il ministro Bonafede (gennaio e maggio 2020) e una terza non sarebbe passata. Per i renziani è uno dei punti dirimenti. Ed era lunare pensare di imbarcare Responsabili tra i gruppi di centro destra che hanno nel garantismo il sacro totem.

Conte rischiava di uscire dal Senato ancora più malconcio di martedì scorso, perdendo anche quei voti appena conquistati: il socialista Nencini, la centrista Lonardo, Pierferdinando Casini e anche gli ex di Fi, la senatrice Rossi e il collega Causin, entrambi con seri problemi a dare il voto al “manettaro” Alfonso Bonafede papà della “spazzacorrotti” e della “prescrizione infinita”. Conte aveva dimenticato il dossier giustizia su cui aveva promesso tavoli di maggioranza mai convocati. La mossa del cavallo è stata proprio questa.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.