A dire la verità la garbata polemica a distanza tra il Quirinale e il premier inglese Johnson sull’afflato di libertà di italiani e inglesi meriterebbe qualche piccola postilla alla luce di quanto sta accadendo in Italia all’applicazione Immuni. Malgrado il governo abbia moltiplicato a dismisura i propri sforzi, sollecitando giornali e telegiornali a compiere una vera e propria campagna pubblicitaria perché i cittadini inoculino sui propri cellulari l’applicativo per il tracciamento dei contatti, la risposta è onestamente fiacca. Anche ammesso che 7 milioni di telefonini abbiano scaricato al proprio interno i logaritmi di Immuni è sempre poca roba rispetto ai 43.600.000 di smartphone a disposizione degli italiani (elaborazione Censis su dati Auditel, 2019). Si potrebbe dire che gli italiani amino la libertà, se non più almeno quanto i sudditi di Sua Maestà. Il Colle aveva ragione, verrebbe da dire.

Dando un’occhiata più da vicino alla questione, però, non si può fare a meno di constatare che si tratta dell’unico, vero e significativo episodio di disobbedienza civile su larga scala messo in atto da un popolo che da marzo in poi ha, praticamente nella sua totalità, obbedito a tutte le indicazioni fornite dalle autorità per combattere la peste virale, inclusa l’autoreclusione. Su queste pagine l’avevamo scritto che il tracciamento all’italiana non avrebbe dato risultati e che la sorveglianza elettronica dei cittadini sarebbe stata, sostanzialmente, uno spreco di tempo e di risorse. Né imporla a colpi di multe sarebbe servito a qualcosa, posto che nessuno è in condizione di poter controllare il telefonino di ciascun cittadino per verificare se Immuni sia stata scaricata e se funzioni davvero. Una falla non da poco nella rete di protezione che si sarebbe dovuta stendere per impedire la seconda ondata di contagi che, entro novembre, a occhio e croce, potrebbe bloccare di nuovo il paese.

Invocare l’atavico ribellismo degli italiani o la loro spiccata insofferenza alla disciplina servirebbe a poco. Questa volta si intravede qualcosa di più profondo e radicato nella coscienza collettiva che non riesce proprio a mandare giù il trojan di Stato, sia pure a fin di bene. In fondo, ma non troppo, a questa diffidenza verso la sorveglianza sui contatti sociali v’è il sospetto – in certi casi la convinzione – che qualcuno bari e che l’app autoinoculata nel cellulare dal ligio cittadino possa servire, prima o poi, ad altro. Magari ad ascoltare le tue conversazioni o a prendere nota dei luoghi o delle persone che frequenti. Sospetto o convinzione del tutto infondati, sia chiaro, stando almeno alle rassicurazioni pubbliche. Ma non è questo il punto. C’è da chiedersi, infatti, come sia cresciuta e da cosa sia stata alimentata la paura della sorveglianza, il timore del controllo, anche in capo a persone che nulla hanno o avrebbero da temere. Forse una spiegazione la troveremo nell’inarrestabile pubblicazione di conversazioni e brandelli di conversazioni con cui, spesso, si apre e si chiude la cronaca giudiziaria di questi ultimi due decenni.

La divulgazione di frasi, mezze frasi, sospiri e silenzi su giornali e media in generale sembra aver sedimentato nella gente comune, anche nella più lontana dalle leve del potere, il timore di essere ascoltati, la paura del grande orecchio, l’idea di vivere in una gigantesca agorà, in una piazza mediatica che ti può chiedere conto di ogni tua parola pronunciata al telefono, in auto, in strada o persino tra le mura domestiche. Non che sia vero ovvio, ma potenzialmente l’armamentario normativo e tecnologico a disposizione dell’inquisitore lo consentirebbe e questo incute di per sé timore, ritrosia, se non paura. Perché, sia chiaro, a volerlo, nulla potrebbe impedire intercettazioni su larga scala (v. Echelon e gli altri scandali) anche in Italia e con un raggio d’azione praticamente illimitato. Una possibilità che genera diffidenza. La tesi degli adoratori del Panopticon, della sorveglianza ossessiva e capillare è nota: se non hai nulla da temere perché ti agiti e ti ribelli, ascoltino pure. Ora, a parte il fatto che mafia e malaffare prosperano a dispetto di migliaia e migliaia di intercettazioni indicate come indispensabili e irrinunciabili (come gli stessi adoratori del controllo di massa devono sostenere per giustificare sempre più intrusioni), l’argomento dimostra quanto scadente sia il livello della riflessione che viene messo in campo.

Il timore di essere intercettati non può essere confuso con il timore di rivelare verità nascoste e inconfessabili. La libertà di conversare senza la paura di essere ascoltati – dovrebbero saperlo tutti – non ha nulla a che vedere con la volontà di delinquere. Il segreto che tutela le conversazioni precede quello circa il loro contenuto. Non vi sarebbe alcuna libertà di parola o di opinione se pensassimo che le nostre frasi possano essere ascoltate, registrate e, se pare utile all’apparato inquisitore, divulgate. La minaccia dell’ascolto è già di per sé una lesione, viva e concreta, del diritto costituzionale di comunicare.

E qui torniamo alla “perfida Albione” e al suo premier. Questa paura, foss’anche una mera ritrosia, è divenuta un profilo di quella che i teorici – da Costantino Mortati in poi – definirebbero la Costituzione materiale del paese. Il reale e profondo convincimento di essere esposti o di essere potenzialmente esposti all’ascolto di Stato ha inciso in radice sul modo stesso in cui la più importante e decisiva delle libertà fondamentali viene percepita e, di conseguenza, esercitata da milioni di cittadini. In questo scenario precario a farne le spese, questa volta, è la sfortunata Immuni e con essa la vita e la salute degli italiani. Un popolo che ama la libertà e che è troppo serio per non sospettare del potere.