Quando la situazione si fa seria, come in Afghanistan, la parola dovrebbe andare alle persone serie, competenti, documentate. Come Renzo Guolo, tra i più autorevoli studiosi dell’Islam radicale. Guolo insegna sociologia delle culture e sociologia della politica all’Università di Padova. Tra le sue più recenti pubblicazioni: Generazione del fronte (Guerini 2008); Potere e responsabilità (con A. Caffarena, Guerini 2009); Identità e paura: gli italiani e gli immigrati (Forum 2010). Con Laterza ha pubblicato: I fondamentalismi (2002), Xenofobi e xenofili (2003), L’Islam è compatibile con la democrazia? (2007), La Via dell’Imam (2007), Chi impugna la Croce (2011), Il fondamentalismo islamico (2014).

In questi giorni, parlando e scrivendo della vicenda afghana, si sono abusate definizioni: fuga, ritiro, tradimento dell’Occidente. Fuori dalla pubblicistica più spiccia, qual è la sua lettura?
Sicuramente assistiamo a un mutamento degli orizzonti della politica mondiale per effetto di riflessi interni. Gli Stati Uniti badano ormai a quella che viene definita una politica per i ceti medi e questo implica che la responsabilità globale non è più un fattore legittimante all’interno. Le democrazie hanno ormai una necessità di riscoprire, per evitare fenomeni populistici, una sorta di consenso interno che in qualche modo sentono di non avere più. E questo è quello che cambia completamente il quadro. Anche perché gli Stati Uniti non possono supplire a oltranza alle mancanze degli alleati occidentali, questo è evidente. Da tempo ormai si dice: “voi dovete assumervi responsabilità di carattere politico e militare in alcune aree, quelle che sono più prossime geopoliticamente”. E questo, è il messaggio di Washington, è quello che più vi chiediamo di condividere. Cosa che non è avvenuta e che mostra anche il completo fallimento della Nato come alleanza in questa fase. È un’alleanza che va completamente ripensata perché non può più avere la spinta propulsiva né della vecchia Guerra fredda né evidentemente del contenimento terroristico di matrice islamista che ha assunto forme diverse, non necessariamente meno complesse e pericolose ma diverse. Tutto questo produce sostanzialmente quello che abbiamo visto. Oltre tutto c’è la presa d’atto, questa sì davvero realistica, che le culture non si modificano facilmente, che non è così facile impiantare esperienze di questo tipo se tu non puoi contare su una parte consistente della popolazione o quanto meno su una minoranza interna che sia molto attiva e orientata verso questo tipo di valori, beh, quell’esperienza, come si è visto, viene liquefatta in pochissimo tempo. È accaduto in passato in altri contesti, tanto più ora in quello afghano. C’è poi da aggiungere che i vantaggi che la permanenza della coalizione occidentale in Afghanistan davano, ciò che veniva redistribuito sia dal punto di vista di risorse simboliche che materiali, riguardava gruppi ristretti. Il Paese era completamente estraneo e ostile, anzi semmai guardava a tutti i fenomeni corruttivi che sono legati inevitabilmente al carrozzone che s’impianta in queste realtà. Lo avevamo già visto in Iraq.

Lei è uno dei più autorevoli studiosi dell’Islam radicale e in quanto tale, evita generalizzazioni fuorvianti, schematizzazioni dozzinali. Le chiedo: si può parlare di quello talebano come un universo monolitico, compatto?
Sicuramente no. Teniamo conto che i primi Taliban erano legati strettamente a una esperienza come quella della fuoriuscita dal comando dei mujahiddin che erano stati i vincitori del Jihad antisovietico, e in qualche modo avevano funzionato come fattori d’ordine. Costoro erano molto legati a tutta la struttura tribale che correva lungo la linea del confine afghano-pakistano. C’era una identificazione molto ristretta verso un gruppo collocato in una realtà territoriale ben precisa e anche con una forte identità pashtun. Oggi i Taliban sono un aggregato di gruppi molto diversi. Teniamo conto che sebbene i due leader, Baradar e Akhundzada, siano stati sostanzialmentie vicini al mullah Omar, la maggior parte dei combattenti sono molto giovani, non vengono dall’esperienza del Jihad antisovietico e sono stati arruolati, nel bene e nel male, sotto altre forme. I Taliban sono una galassia, e mancando un leader carismatico come lo era stato il mullah Omar, non è così semplice riuscire a comprendere ora, così astrattamente, come si comporteranno. Dovremo vederlo concretamente, anche se io ritengo che i Taliban siano di fronte a un bivio…

Quale?
Le esperienze del passato non sono più riproducibili: lo stesso patto mullah Omar-Osama bin Laden vincolava solo i contraenti. Oggi quel patto non c’è più, essendo scomparsi gli attori che lo avevano siglato. Ora, mi sembra che almeno Baradar, un capo più pragmatico, intenda costruire, in qualche modo, un regime duraturo. Questo significa che può farlo solo se non diventa subito bersaglio della tensione internazionale. Anche perché ci sono molti attori, dalla Cina alla Russia, dall’Iran alla Turchia, al Pakistan che sono oggettivamente interessati a colmare il vuoto occidentale per diverse ragioni. Pensiamo alla Cina con il completamento della nuova Via della Seta o la Turchia che ritrova uno spazio panturanico che si estende fino al cuore dell’Asia, e anche altri attori sono interessati. Tant’è che diversamente dal primo regime dei Taliban che aveva avuto solo tre riconoscimenti internazionali (tra l’altro, significativamente, anche dall’Arabia Saudita), qui, come si vede, da Mosca a Pechino, da Teheran ad Ankara probabilmente il riconoscimento sarà ben più consistente. Il che cambia il quadro. Perché il regime si muoverebbe dentro a un sistema geopolitico di vantaggi e di tutela che è molto maggiore rispetto al passato. Insomma, non sono più dei paria, dei marginali. Del resto, il fatto che siano andati a trattare direttamente a Doha con gli americani li aveva già sdoganati.

Vent’anni fa, la guerra ebbe inizio, dopo l’11 Settembre, per sconfiggere al-Qaeda sradicandola dall’Afghanistan. Poi si è visto che al-Qaeda si è ridefinita “orrizzontalmente” allargando il suo radicamento a mezzo mondo. Lo stesso si può dire dell’Isis dopo le disfatte militari subite in Siria e Iraq. Questa guerra al terrorismo jihadista può considerarsi davvero finita quando uno libera un territorio?
Questo è il vero nodo da capire. Perché si tratta di vedere quale appeal avrà il ritorno dei Taliban a Kabul. Il modello non è esportabile, per vari motivi, locali, tribali etc. Intanto si tratterà di capire se cercheranno di mettere su uno Stato oppure se faranno come l’altra volta, se lo demoliranno totalmente. È più probabile la prima ipotesi, cioè che si cimentino loro con la costruzione dello Stato. Il fatto è che questa sconfitta, perché tale è, dell’Occidente, era contenuta nelle sue stesse premesse: lo stesso fatto che Bush se ne sia andato dopo 2 anni, spostando tutto il centro del potere militare economico e militare in Iraq, ha cambiato completamente la vicenda. Il problema è capire come oggi i vari movimenti islamisti, che sono jihadisti in senso stretto come al-Qaeda o l’Isis, oppure non jihadisti ma magari islamo-nazionalisti, movimenti politici che agiscono alla luce del sole e non il classico gruppo clandestino terroristico, interpretano il lasso di tempo che ritengono di avere a disposizione prima che l’Occidente si riorientri, teoricamente, su una possibilità di intervento. Perché è chiaro che nessun intervento futuro, che sia un’operazione di polizia militare o che avvenga con una guerra aerea, da remoto o da basi, non è che sposti le cose. I bombardamenti possono fare molto male ma non ai regimi, come si è sempre visto. Sono le truppe a terra che cambiano il tutto. Capire, dunque, come da qui ai prossimi 3-5 anni tutta questa grande e composita galassia islamista – quella “neotradizionalista” che punta molto al cambiamento di regime per effetto della presenza nella società, o quella “insurrezionalista-jihadista” – interpreterà questo tempo vuoto che potrebbe avere a disposizione dopo il ritiro del “Grande Gendarme” in casa propria. Questo è il fattore vero. L’oggetto della politica in questo momento è il tempo, che è sempre stato un fattore essenziale nella sua genesi.

In ultimo, professor Guolo, vorrei tornare sulle parole che descrivono un fatto. Non è un problema semantico ma di sostanza. Quella dell’Occidente dall’Afghanistan si può definire una”fuga”?
Onestamente mi viene difficile definirla altrimenti. Di fuga si è trattato, nelle sue modalità e per quello che c’è dietro. Il tempo ci dirà quali saranno le ricadute di questa fuga. Non tanto sui movimenti islamo-nazionalisti, come sono i Taliban, ma per altri versi Hamas in Palestina o Hezbollah in Libano, quanto sui gruppi “islamo-insurrezionalisti” che da questa fuga occidentale potrebbero trovare nuova linfa per rilanciare un Jihad globale, ben oltre la dimensione afghana.

 

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.