Salute mentale e sovraffollamento: commentando la relazione annuale del Garante nazionale dei detenuti, Marta Cartabia non ha avuto esitazioni nell’indicare i principali problemi che affliggono i penitenziari italiani. Alla guardasigilli non saranno sfuggiti i dati sulla carcerazione preventiva che vedono la Campania al primo posto per numero assoluto di condannati non definitivi (1.233, pari al 18,8% del totale) e di reclusi in attesa del primo giudizio (1.252, cioè il 19,6% dell’intera popolazione carceraria). Numeri allarmanti che dimostrano come certa magistratura abusi delle misure cautelari e come, nella nostra regione come nel resto del Paese, dilaghi quella cultura giustizialista che vede nel carcere la principale – se non l’unica – risposta al fenomeno criminale.

A sollevare la questione è stato il deputato Enrico Costa che ha invitato Cartabia ad affrontare il problema del sovraffollamento «partendo dal 30,5% di presunti innocenti»: su un totale di 53.660 detenuti, nelle carceri italiane se ne contano 16.362 in attesa di giudizio di cui 8.501 in attesa del primo giudizio. In proporzione, come dicevamo, la Campania fa segnare dati ancora più allarmanti se si pensa che, al 31 maggio scorso, addirittura il 37,9% dei 6.554 detenuti ospitati nelle 15 carceri regionali è composto da presunti innocenti. Peggio fanno solo Friuli Venezia Giulia e Sicilia, dove i detenuti in attesa di giudizio costituiscono rispettivamente il 41,2 e il 38,1% dell’intera popolazione carceraria. Se invece analizziamo i valori assoluti, la Campania è saldamente al comando della poco lusinghiera classifica sia dei detenuti in attesa di primo giudizio sia dei condannati non definitivi, seguita da Sicilia e Lombardia.

«Si ha l’impressione che, sul territorio regionale, si faccia un uso sopra la media della custodia cautelare in carcere – osserva Vincenzo Maiello, punto di riferimento dell’avvocatura partenopea e docente di Diritto penale all’università Federico II – Questo è l’indizio di un uso forse non particolarmente sorvegliato delle norme in materia di misura cautelare che, in ragione della loro natura eccezionale, dovrebbero soggiacere a un regime stretta interpretazione e di rigorosa applicazione». Secondo il professore Maiello, inoltre, «il problema è soprattutto culturale: il legislatore è già intervenuto e ha fornito indicazioni inequivoche sul carattere di extrema ratio del ricorso al carcere come presidio cautelare. Spetta alla giurisprudenza uniformarsi.  Lo sta già facendo la Cassazione che ha impresso uno svolta intrisa di sensibilità garantistica agli orientamenti ermeneutici in materia. Tuttavia, nella prassi della giurisprudenza di merito, permangono impostazioni non sempre vicine al valore della presunzione d’innocenza e al principio del minimo sacrificio necessario della libertà personale».

Il tema dell’eccessivo ricorso alla carcerazione preventiva, però, s’intreccia anche con quello del disagio psichico e della dipendenza dalla droga. Si stima che circa 450 persone afflitte da simili problemi si trovino attualmente nelle carceri campane sulla base di denunce presentate dai familiari. Proprio così: “spedire” dietro le sbarre un proprio figlio o fratello tossicodipendente o affetto da disturbi psichici rappresenta talvolta un disperato tentativo di cura e di cambiamento. «Ma per quelle persone – sottolinea Samuele Ciambriello, garante regionale dei detenuti – la detenzione rappresenta un problema in più. Attenzione, dunque, alla custodia cautelare che spesso non costituisce la risposta più appropriata a problematiche di natura psicologia ed emotiva».

Ovviamente, l’abuso della carcerazione preventiva incide negativamente sulla qualità della vita all’interno del carcere. Se si arresta con troppa nonchalance, non bisogna meravigliarsi del fatto che, in alcune celle di Poggioreale, siano stipati fino a 14 detenuti e che non tutti possano partecipare alle attività trattamentali previste. A spiegarlo è Antonio Fullone, dirigente generale dell’amministrazione penitenziaria campana: «Se la carcerazione preventiva fosse l’eccezione, la vita in carcere sarebbe più sostenibile perché le celle non sarebbero sovraffollate e l’attività di rieducazione e risocializzazione, riservata ai soli condannati in via definitiva, risulterebbe molto più efficace». Come se ne esce, dunque? «Con un’ampia riflessione sulla detenzione – conclude Fullone – ma soprattutto cominciando a considerare il carcere come extrema ratio in coerenza con la Costituzione e i valori che ispirano il nostro ordinamento giuridico».

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Classe 1987, giornalista professionista, ha cominciato a collaborare con diverse testate giornalistiche quando ancora era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell'università Federico II di Napoli dove si è successivamente laureato. Per undici anni corrispondente del Mattino dalla penisola sorrentina, ha lavorato anche come addetto stampa e social media manager prima di cominciare, nel 2019, la sua esperienza al Riformista.