L’incontro con Papa Francesco non è stato per noi di Mediterranea, una semplice occasione di ribalta. Per carità, se è utile a far vedere con altri occhi e a descrivere con altre parole la vita, troppo spesso la morte, alla quale sono condannati migliaia e migliaia di altri esseri umani che tentano di attraversare il mare per raggiungere l’Europa, ben vengano anche i riflettori. Ma con il Papa, con la Chiesa che lui rappresenta, non abbiamo mai cercato questo. Stiamo percorrendo un cammino, per qualche osservatore strumentale, per altri “eretico”, che ha al centro il mettersi insieme “tra donne e uomini di buona volontà” nel praticare un altro mondo possibile, nel continuare a cercare una “Terra Promessa”.

Quando abbiamo posto le basi di Mediterranea, abbiamo deciso che non avremmo chiesto a nessuno, che volesse unirsi a noi, “da dove veniva”. Non avremmo fatto gli “esami del sangue” di purezza rivoluzionaria o umanitaria, a chi incontravamo, mentre facevamo quello che sentivamo di dover fare. Abbiamo deciso di mostrarci inadeguati e non sufficienti da subito, con nessuna verità in tasca e bisognosi noi di aiuto, più che dispensatori di soccorso. Ce lo siamo proprio detti tra noi quando, quel 3 ottobre del 2018, siamo usciti per la prima volta in mare con la nostra vecchia, cara Mare Jonio, che da rimorchiatore del ‘72 era stata trasformata in nave del soccorso civile. La tragedia del Mediterraneo, ma in fondo tutte le aberrazioni che questo mondo “civilizzato” coltiva ai bordi dei suoi giardini ben curati, ha come prima causa la nostra incapacità di trasformare l’indignazione in azione.

Indignarsi certo, continua ad essere esercizio di cultura e sfoggio di solide basi morali: le nostre radici cristiane o illuministe si mostrano orgogliose, nel giudicare e rimanere “seriamente scossi” dalle violazioni dei diritti umani, ma più alziamo i toni e misuriamo con sguardo severo la nostra “distanza” dall’orrore, più ci siamo assuefatti ad esso e a non reagire. L’indignazione è diventata un sentimento addomesticato, senza corpo né viscere che si contorcono. Che si esterna da seduti, davanti a uno schermo. Tutto è relativo, e a tutto ci si abitua. Anche le persone che facciamo morire in mare, perché è chiaro che siamo noi a costringerli a questa roulette russa, con le nostre scelte politiche di destra e di “sinistra”, piano piano scompaiono. Non sono più persone, donne, uomini e bambini, ma numeri, notizie, e poi nemmeno quelle.

Ho detto a Papa Francesco, durante l’incontro, che mi aveva colpito l’uso, mentre il mare restituiva i morti, della frase “ho la coscienza pulita”. Ecco che l’indignazione cambia verso e anche natura: da impulso che non ti permetterebbe di stare tranquillo con te stesso, che disturba dentro a tal punto da farti vergognare per quello che sei costretto a vedere, fa una giravolta e diventa indignazione verso chi osa dire, o solo alludere, che possa essere anche colpa tua, per quell’orrore. E si trasforma in un alibi per non fare o lasciar fare. Mediterranea è nata perché abbiamo permesso alla nostra indignazione di uscire libera, di crescere, di farsi carne e volontà. Tutte cose che secondo me interessano molto al Papa e a questa Chiesa che si interroga, continuamente, in un esercizio che qualche esperto bolla invece come “incertezza”. E quindi il Papa ci ha accolto, a noi che siamo tra i “peggiori”, per ascoltarci. Ascoltare tutti i nostri dubbi e anche la nostra rabbia, ascoltare il nostro sogno, la descrizione dei nostri piani per poter continuare a sfidare ciò che sembra immutabile.

Prima di andare da lui, sono stato invitato alla Gregoriana, l’Università Pontificia. Durante un corso sul rapporto tra “Chiesa e Diritti Umani”, l’autorevole docente mi ha chiesto di dire due parole. Davanti avevo una classe di giovani preti e suore di tutti i colori e da tutto il mondo. Una suorina giovanissima e dagli occhi accesi, mi ha avvicinato alla fine, per raccontarmi della sua attività al confine tra il Messico e gli Stati Uniti. Per aiutare i migranti che anche lì, sono classificati dal paese più civile e democratico del mondo: “clandestini”. E ammazzati, feriti, calpestati, incarcerati. Respinti, come qui. Un prete studente, africano, parlava invece di George Floyd e di Black Lives Matter, per portare un esempio di come la “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo”, sottoscritta dal mondo occidentale e base ispiratrice per le costituzioni del dopoguerra, “regni ma non governi”.

Il giorno dopo l’incontro con il Papa sono stato dai Francescani, che avevano riunito il loro “coordinamento del Mediterraneo”. Vivono in missioni che sono proprio in quell’altra sponda del nostro mare, e tutti i giorni si confrontano con quelli che “partono”. Una suora che sta in Turchia, in un campo profughi di quelli che Erdogan gestisce pagato dall’Europa per trattenere i migranti afghani e siriani, raccontava con le lacrime agli occhi di come le bambine si prostituivano per poter raccogliere i soldi per comprare il viaggio per arrivare dall’altra parte, in Grecia. Un frate più anziano invece, descriveva la pratica dell’accoglienza per i “senza documenti”.

Ho conosciuto anche, in questi giorni, una comunità di gesuiti, che mi ha ospitato. Con loro ho condiviso le mie storie e loro mi hanno raccontato delle loro: in Ciad, in Albania, in America Latina. Mediterranea è questa cosa qua. In navigazione, per costruire una rete, grande, di persone che condividono delle pratiche concrete, anche se non sono gradite al potere. Ognuno, attraverso quello che vive, può dare delle risposte al suo bisogno di fede o ai suoi ideali laici. Ma intanto, aspettando le risposte, ci si muove. Si vive. Ci si sporca le mani. Don Mattia Ferrari, il nostro cappellano di bordo, è il capomissione di questo viaggio dentro questa Chiesa per gli ultimi. E così è potuto succedere che anche uno come me, che non se lo merita assolutamente, abbia potuto ricevere un abbraccio dal Papa.