Del Partito democratico è uno dei dirigenti più preparati. E per chi lo intervista ha il pregio di non girare attorno alle questioni più spinose. Come l’elezione del presidente della Repubblica e le sue ricadute politiche. La parola a Gianni Cuperlo, presidente della Fondazione PD.

Ora che la “partita del Quirinale” si è conclusa, sembra aprirsi quella di Palazzo Chigi. Molto si discute sulla tenuta del governo Draghi e della variegata maggioranza che lo sostiene. C’è il “partito” degli ottimisti, secondo cui Draghi esce rafforzato dalla rielezione di Mattarella, e il “partito” di chi vede un futuro traballante per il governo e il suo premier. Lei con chi sta?
Scelgo di stare col buon senso. Sull’elezione del presidente della Repubblica non c’era chi potesse dichiararsi vincitore in partenza. Semplicemente nessuno disponeva dei numeri sufficienti a “fare da solo”. A quel punto la rielezione di Mattarella è divenuta il solo sbocco per uscire da un vicolo cieco e la saggezza di un certo numero di grandi elettori ha compensato l’avventatezza del leader della Lega. Detto ciò non so se Draghi esca rafforzato o indebolito, se guardo alla sua reazione direi che ha dato un contributo decisivo a sbloccare lo stallo e che il day after non lo ha visto indossare i panni di Edmond Dantes, pronto a tutto pur di regolare i conti con una maggioranza giudicata poco leale. Mi pare che la risposta del governo sia stata l’opposto, anticipare le misure necessarie sul versante della pandemia, dalla scuola alla durata del green pass, e accelerare i passaggi tecnico-politici sul fronte del Pnrr. Il tutto per fronteggiare il pericolo maggiore, una ripresa fortissima dell’inflazione, tassa occulta che penalizza chi ha meno reddito. Mi faccia aggiungere un’ultima nota, il governo dia subito una risposta rigorosa e convincente alle botte della polizia sugli studenti che in diverse città manifestavano dopo la morte assurda di Lorenzo, diciottenne all’ultimo giorno di stage.

Per restare su Draghi. Non è un mistero che avrebbe visto di buon grado il suo trasloco da Palazzo Chigi al Colle più alto. Invece…
Invece non è accaduto e se vogliamo essere sinceri la ragione non è solo nel bisogno di completare il lavoro avviato nell’ultimo anno. Quell’argomento aveva una sua fondatezza anche se vi è stato chi lo ha usato come alibi per altri scopi. Noi dal principio abbiamo detto che Draghi e Mattarella erano le due figure più autorevoli e rappresentative di questa stagione complicata e che non sarebbe stato possibile privarsi in un colpo solo di entrambe. In questa logica la candidatura di Draghi aveva una ragion d’essere, nel senso di garantire la continuità con il primo settennato di Mattarella, ma la condizione era una condivisione di tutta la maggioranza comprensiva di un accordo sul governo che avrebbe dovuto proseguire e completare la lotta al Covid e la gestione della ripresa. Quelle due condizioni non si sono realizzate, ancora una volta per esplicita contrarietà della Lega e la tacita opposizione di altre forze e componenti, fuori e dentro i partiti che sostengono il governo attuale. A quel punto la riconferma di Mattarella era la sola garanzia di superare lo scoglio della credibilità per la massima istituzione del paese e per una continuità nell’azione dell’esecutivo.

Le ricadute sull’assetto politico sono enormi.
Il centrodestra è imploso. Sugli errori del leader leghista ho detto, credo si possa aggiungere che sull’insieme ha pesato la scarsa unità interna a quello schieramento. Scelte e comportamenti hanno dimostrato come dietro le foto opportunity di vertici sorridenti convivano strategie divergenti. Quanto alla bocciatura della Casellati hanno sbrigato la pratica in casa senza bisogno che li aiutassimo noi. D’altra parte una coalizione che si divide sul sostegno al governo mostra di non condividere neppure i fondamentali. Fratelli d’Italia gioca la carta della sola opposizione contro una maggioranza di tutti. Salvini è alle prese con un dubbio amletico, se resta al governo rischia di perdere altro consenso a vantaggio della Meloni, se ne esce rischia di perdere il partito che nel Nord ha una classe dirigente ben consapevole di cosa voglia dire sostenere Draghi e mantenere in questa fase un aggancio solido con l’Europa.

Per venire al centrosinistra. Il Pd ha puntato su un asse con il Movimento 5 Stelle di Conte. Ma può reggere un’alleanza quando uno dei contraenti, in questo caso Conte, viene fatto bersaglio del “fuoco amico” pentastellato e che ora viene sfiduciato anche dai giudici?
Confesso che per me quel movimento rimane un mistero insoluto. Non rimuovo il passato, né quello più remoto quando venivamo tacciati delle accuse più infamanti, né quello recente che ci ha visto collaborare negli stessi governi. Riconosco anche i passi avanti compiuti sul terreno della cultura politica e istituzionale. L’antieuropeismo ideologico delle origini come la sciagurata richiesta di impeachment sono ricordi da consegnare agli archivi. Per loro la prova del governo è stata decisiva nel forgiare una forza che ha pochi legami con le piazze del vaffa e quel consenso straripante che riuscirono ad alimentare. Ma qui si apre la pagina che tuttora mi pare non risolta, decidere con quali regole interne, quali processi di selezione della classe dirigente e della leadership, quali alleanze non improvvisate, intendono proseguire il cammino. Giuseppe Conte in questi mesi ha sempre agganciato il futuro del movimento al campo largo del centrosinistra, dal mio punto di vista continua a essere una buona notizia. Se il ministro Di Maio, al netto delle divergenze di carattere, coltiva una idea diversa è bene che lo dica e si apra al loro interno un serio confronto sulla politica e la strategia da seguire. Che si chiamino partiti o movimenti nelle organizzazioni democratiche e trasparenti di solito funziona così, e non fa male.

Resta il fatto che ai vertici dei 5Stelle lo scontro è sempre più infuocato. A Di Maio che si dimette dal Comitato di garanzia, Conte ribatte tuonando: “Non tollero guerre di logoramento”. Ora la decisione del tribunale di Napoli.
Non credo sia un gioco delle parti, in quel movimento il travaglio è reale. Mi colpivano nei giorni scorsi gli schemi con le diverse correnti interne e l’eterno esercizio di chi sta con chi. A pensarci è un po’ la nemesi di una forza che si era presentata col programma di aprire la politica, leggasi il parlamento, come una scatoletta di tonno e alla fine non solo quella scatoletta non l’ha aperta ma ci si è infilata dentro, il che a pensarci bene è anche tecnicamente un’operazione complicata. Detto ciò è bene che una discussione vera la affrontino e mi auguro che l’esito sia un ancoraggio solido al campo del centrosinistra.

L’elezione di Mattarella, un’ottima notizia per l’Italia e le macerie dei partiti”. È il titolo di un recente editoriale del direttore del Corriere della Sera, Luciano Fontana. Lei si sente un “macerato”?
Confido ancora nella capacità di distinguere e di non affastellare tutto e tutti nella stessa logica. Che il sistema politico viva la sua ennesima stagione di crisi è un dato che però dovrebbe accompagnarsi sempre alla risposta sulla radice di quella crisi e sulle misure necessarie a superarla. Personalmente resto convinto che alla base di questa lunghissima transizione vi sia la fragilità, spesso l’evanescenza, delle culture che dovrebbero porsi a fondamento di identità e appartenenze riconoscibili. Avere teorizzato un modello di partiti fondati su leadership assolute e per forza di cose transitorie, avere rimosso per un paio di decenni il capitolo della rappresentanza e della sua qualità a vantaggio del principio della governabilità, avere consegnato interi territori e regioni in appalto a signorie locali tese a consolidare il potere con una trasversalità capace di mescolare valori e politiche, anche tutto questo ha creato le premesse per la situazione di ora. Detto ciò c’è chi su questa fragilità del sistema pensa di lucrare una rendita di posizione riciclando vecchie manovre, penso all’evergreen del “grande centro”. Ma c’è anche chi come il Pd tenta la via di un ripensamento della partecipazione con un allargamento delle maglie. La verità è che anche dentro di noi su questo punto esistono cautele eccessive o vere e proprie resistenze, e la ragione è in quel vecchio titolo di un programma di Renzo Arbore, “Meno siamo, meglio stiamo”. Ma se non vediamo noi per primi i pericoli a cui oggi è esposta la tenuta delle democrazie nel cuore dell’Europa e dell’Occidente i rischi di una disaffezione e un astensionismo patologici non sono dietro l’angolo, ce li abbiamo in casa.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.