«Non servono nuove strutture sanitarie di accoglienza per gli autori di reato affetti da disturbi mentali e socialmente pericolosi (le Rems), ma misure davvero alternative. Non c’è tanto interesse per questo argomento perché riguarda una piccola fetta della nostra popolazione ma è quella più a rischio: occuparsene è un fatto di civiltà». Parla Giuseppe Nese, psichiatra, coordinatore Rems e salute mentale in carcere della Campania.

Professore, la rivoluzione gentile che ha visto la chiusura degli Opg e poi la nascita delle Rems, oggi pare vacillare. Lei che idea ha?
«La rivoluzione gentile è per definizione una rivoluzione precaria quindi va difesa e tutelata. Le Rems sono nate dal livello indegno che negli anni avevano raggiunto le soluzioni che abbiamo conosciuto come ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), è dalla necessità che era già nelle norme e nella sensibilità un po’ di tutti di fare sì che anche i cittadini con problemi di salute mentale che hanno commesso un reato fossero seguiti e assisiti come cittadini liberi e non con una penalizzazione. Non ci meravigliamo quando vengono rappresentati elementi critici sulle Rems proprio perché è una riforma fragile per definizione e che manca ancora di troppe cose».

Oggi le Rems sono considerate effettivamente extrema ratio o si sta andando sempre di più verso un ritorno silente ai manicomi giudiziari?
«Non siamo arrivati a questo, le Rems non sono nate come extrema ratio, sono nate con una legge del 2012 e lì non erano considerate come l’ultima soluzione possibile. Erano una mera sostituzione degli Opg, poi con la legge 81 del 2014 e altri interventi si è stabilito di trattarle come extrema ratio. Il punto è che se noi pensiamo che le Rems siano extrema ratio, non dobbiamo dimenticare che fino a poco fa non lo erano e che prima che fossero chiusi gli Opg, gli Opg non erano extrema ratio. Ci stiamo confrontando con una cultura decennale che è propria ormai del sistema giuridico e sanitario che non vede queste misure come extrema ratio ma che è abituata al contrario a vedere quel luogo come unica possibile soluzione per gestire le persone che hanno un problema psichiatrico e commettono un reato. E questo lo ritroviamo in maniera più pesante in carcere».

In carcere dove c’è il 40% dei detenuti che fa uso di psicofarmaci. Su questo tema non sembra esserci attenzione.
«Sì, mentre sulla questione Rems, anche per l’attenzione della Corte Costituzionale, c’è sensibilità, ce n’è molta meno quando parliamo di carcere. Ma anche in carcere, in misura molto più grande, non c’è un’assistenza psichiatrica come noi la conosciamo. Questa percentuale ci dà la misura di quanto sia forte il disagio della presenza in prigione, però automaticamente si associa il disagio con la patologia psichiatrica, cosa che non è. Il carcere ha un suo ordinamento nato nel ‘75 e anche se la riforma della sanità penitenziaria c’è stata nel 2008, per modificare l’ordinamento penitenziario in maniera limitata, abbiamo dovuto aspettare il 2018. Poi in aggiunta all’ordinamento penitenziario, c’è una legge secondaria che è il regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario, risale al 2000 e non è ancora stato toccato. È fermo lì da 22 anni. Nel suddetto regolamento ancora ci sono gli Opg, scritti nero su bianco e tutta l’assistenza psichiatrica è indirizzata agli Opg. Gli ospedali psichiatrici giudiziari non erano solo il luogo nel quale venivano ricoverate le persone prosciolte perché incapaci di intendere e di volere, era anche il luogo dove venivano trasferiti i detenuti giudicati capaci di intendere e di volere al momento del reato, ma con bisogno di assistenza».

Quindi, il carcere non ha mai avuto al suo interno la possibilità di fare assistenza psichiatrica?
«Esatto. Questa possibilità non c’è mai stata. Il carcere dovrebbe essere un luogo rivisitato da un punto di vista sociale e sanitario per poter dare risposte adeguate a chi è in cella, ma soprattutto un’attenzione particolare alle alternative percorribili».

Però le Rems oggi vengono considerate alternative al carcere, giusto?
«È proprio questo il problema, le Rems non sono alternative al carcere. E lo dimostrano le liste d’attesa e i provvedimenti».

Però il consiglio regionale, recentemente ha invece sostenuto la necessità di creare una nuova Rems.
«Sì, c’è stata questa affermazione, si sta parlando solo di Rems, cioè di quei provvedimenti dell’autorità giudiziaria che portano a un’assegnazione in Rems, però quando parliamo di questo dobbiamo prima chiederci: com’è concepita oggi la Rems nel sistema giudiziario e sanitario? È davvero concepita come extrema ratio oppure no? Perché il punto è questo, se abbiamo evidenze che ci portano a dire che non è considerata extrema ratio, significa che il problema che abbiamo oggi, cioè le liste d’attesa, non si gestisce aumentando i posti in Rems ma migliorando i rapporti di collaborazione tra servizi sanitari e autorità giudiziaria per far sì che quest’ultima riduca la tendenza ad assegnare in Rems, laddove, in conformità con la legge, dovrebbe essere l’ultima soluzione. Quindi, se in un territorio ancora non vengono così considerate bisogna lavorare in un’altra direzione che non è quella di creare nuove Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Anzi, bisogna fare proprio il contrario».

Cosa fare quindi?
«Bisogna supportare le regioni per potenziare i dipartimenti di salute mentale e per far sì che il percorso di superamento degli Opg, sia un percorso che vada verso le misure alternative alle Rems. In Campania, le risorse le stiamo veicolando in questa direzione, cioè le stanziamo in quelle Rems dove sono necessari interventi ma poi le utilizziamo per rafforzare i dipartimenti di salute mentale che dal settembre 2014 hanno programmato molti interventi destinati ad accogliere i pazienti con una misura di sicurezza non detentiva. Questo dovrebbe essere il centro degli interventi. A Napoli, per esempio, non serve una nuova Rems, serve portare a termine gli interventi in quell’ospedale che gestisce i pazienti in libertà vigilata».

Resiste un problema di tipo culturale?
«Assolutamente sì. Cioè dobbiamo applicare il concetto che contiene la rivoluzione gentile, non è che al posto degli Opg costruiamo le Rems. è che al posto degli Opg o delle Rems, le persone devono essere seguite in una condizione di libertà. Oggi in Campania, ci sono 14 persone detenute nelle Rems, ma per le quali sono già pronti progetti alternativi. Dobbiamo mettere in pratica ciò che la legge dice: le Rems come extrema ratio, cioè come applicazione di una misura detentiva e invece oggi non sono considerate così».

Aprire una nuova Rems, vuol dire aumentare il rischio di considerarle sempre meno come ultima spiaggia?
«Esatto. Sarebbe una soluzione errata perché va in una direzione opposta alla rivoluzione gentile e che durerebbe pochissimo perché più si offre, più aumenta la domanda».

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Giornalista napoletana, classe 1992. Vive tra Napoli e Roma, si occupa di politica e giustizia con lo sguardo di chi crede che il garantismo sia il principio principe.