Chi si occupa della questione della cura/controllo delle persone con patologia psichiatrica autori di reato (i folli-rei, li definisce il linguaggio novecentesco del codice penale) sapeva che il 2022 si sarebbe aperto con almeno tre decisioni importanti: due della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, il caso Sy e il caso Ciotta, e una della Corte Costituzionale, a seguito dell’Ordinanza 131/2021 su impulso della questione sollevata dal giudice di Tivoli. Lunedì è arrivata la prima delle tre decisioni (Sy contro Italia), le altre sono attese a stretto giro. Nel merito, ci sono alcune differenze, ma sarà opportuno leggere i tre provvedimenti con uno sguardo “politico”, per capire che impatto avranno e quali sono gli interventi di indirizzo che vanno messi in campo.

Il tema è “fare un tagliando” al percorso di superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, capendo ciò che ha funzionato, ed è molto, e ciò che invece va corretto. È stato un percorso tortuoso, iniziato con la riforma della sanità penitenziaria nel 1999 e passato attraverso la vergogna pubblica delle immagini di degrado e abbandono girate nei sei Opg italiani dalla Commissione d’inchiesta del Senato nel 2012. Concluso solo nel maggio 2017 con la chiusura degli “ultimi manicomi” italiani, in applicazione della legge 81/2014. Un percorso che ha portato alla creazione di una trentina di residenze sanitarie (le Rems), capillarmente diffuse sul territorio e con un limite massimo di venti posti fissato per legge. I dati ufficiali – confusi e difficilmente accessibili – parlano di circa 550 persone ricoverate nelle Rems (pari al numero massimo di posti disponibili). Al di fuori delle Rems, ci sono poi quasi 4.000 persone sottoposte a misure di sicurezza non custodiali, su tutte la “libertà vigilata” che si svolge principalmente in forma residenziale nelle molte comunità che costellano il territorio italiano.

Ma la riforma ha inciso su due punti fondamentali: da una parte ha reciso la cinghia di trasmissione che collegava il carcere alle misure di sicurezza. Oggi, dunque, nel sistema delle misure di sicurezza non si possono più “scaricare” le persone dichiarate capaci di intendere e volere, le cui condizioni psichiche si aggravano durante la loro detenzione. Queste persone devono essere “gestite” in carcere o affidate ai servizi di salute mentale del territorio, che sono però spesso refrattari, per molte ragioni, ad accogliere paziente provenienti dal circuito penale. Dall’altra parte, ha introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento il sistema del “numero chiuso”. Un principio tanto banale, quanto rivoluzionario: il numero di ospiti in Rems non può mai derogare la capienza massima e dunque le Rems non possono essere “sovraffollate”. Ciò ha prodotto una “lista di attesa” di persone che attendono di essere ricoverate in Rems. I casi più critici, sono coloro che trascorrono questa attesa in carcere. Su quanti siano e come vengano gestite dalle singole Regioni e Aziende sanitarie le liste d’attesa c’è poca chiarezza: poche decine o centinaia? Le informazioni divergono a seconda delle fonti e questo non aiuta la comprensione.

Sono queste, in estrema sintesi, le due questioni su cui la Cedu è intervenuta e su cui la Corte Costituzionale è chiamata a fare chiarezza. Il futuro dunque deve partire da due principi ineludibili, di diritto e di umanità. Il primo, le carceri non sono luoghi di cura per la presa in carico di patologie psichiatriche gravi, vanno dunque immaginati nuovi modelli per la salute mentale, in stretto contatto con i servizi territoriali. È quello che vediamo tutti i giorni durante le visite dell’Osservatorio sulle condizioni detentive. Anche la gestione ibrida – un po’ carceri, un po’ luoghi di cura – di sezioni “speciali” per pazienti con patologie psichiatriche diventa, nei fatti una soluzione che enfatizza gli aspetti punitivi a scapito di quelli terapeutici. Se davvero “servono” luoghi dentro le mura del carcere dove promuovere la salute mentale, come ribadiscono ad ogni livello gli operatori penitenziari, allora occorre immaginare soluzioni del tutto nuove. L’esperienza delle sezioni “a custodia attenuata” per madri detenute o per il trattamento delle tossicodipendenze possono diventare esempi da imitare?

Il secondo principio è che le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems) devono essere luoghi di “passaggio”, uno dei luoghi dove il paziente psichiatrico autore di reato può essere destinato, ma non l’unico. Esistono altre soluzioni, di tipo comunitario o residenziale, che vanno prese in considerazione. Questo significa non rassegnarsi alla “istituzionalizzazione” e a ricoveri molto lunghi, con continui passaggi da un luogo all’altro (Rems, comunità e ritorno). È un principio cardine della riforma, ma che fatica ad essere messo in pratica dai giudici, soprattutto per mancanza di dialogo con i servizi di salute mentale. Il peggio che può avvenire alla luce di queste tre decisioni delle Alte Corti, è limitarsi a dire “servono più Rems”. Sarebbe un errore grave ed un’occasione mancata, che non salverebbe il Paese da ulteriori condanne.