La pandemia ha aggravato i disagi di chi vive in cella
La disperazione dietro le sbarre: un detenuto su quattro fa uso di psicofarmaci

Un detenuto su quattro fa uso di psicofarmaci e terapie farmacologiche. La fragilità diffusa tra i detenuti, e accentuata sicuramente dagli effetti di questa pandemia, è figlia di un sistema che fa sempre più fatica a trovare una dimensione di umanità dietro le sbarre e dare un senso alla pena che non sia soltanto quello finalizzato alla punizione. Le misure di prevenzione che si sono rese necessarie per fronteggiare la pandemia e contenere i contagi hanno determinato un ridimensionamento, e in alcuni casi addirittura una sospensione, delle attività dedicate alla sfera rieducativa delle strutture penitenziarie, lasciando che all’interno delle carceri vi siano soltanto detenuti e agenti della polizia penitenziaria.
Come in una sorta di militarizzazione. Uno scenario nel quale la funzione umana e rieducativa della pena alla fine si perde. Sicché, chi vive in cella si ritrova a trascorrere la maggior parte della giornata in spazi vitali ridottissimi e scarsamente illuminati, in una sorta di ozio forzato, in una condizione di separazione dal mondo esterno che la pandemia non ha fatto altro che amplificare. E la conseguenza è la ricerca di un’alternativa, che per un detenuto su quattro sfocia in antidepressivi e ansiolitici. Il tema lo aveva sollevato l’associazione Antigone nei mesi scorsi, conducendo uno studio su 60 penitenziari italiani e ora l’allarme torna attuale. Aumentano i detenuti con patologie psichiatriche, aumentano i detenuti che dopo un certo periodo di reclusione cominciano ad assumere psicofarmaci, aumentano gli atti di autolesionismo. E finiscono per aumentare anche le tensioni e i livelli di invivibilità.
Così, anche una realtà penitenziaria con meno criticità come quella del carcere di Secondigliano registra numeri preoccupanti sulla salute mentale dei detenuti, oltre che su aspetti strutturali. Nei giorni scorsi, gli osservatori campani dell’associazione Antigone, impegnata da tempo nella tutela dei diritti dei detenuti, hanno visitato alcuni reparti del carcere di Secondigliano, media e alta sicurezza, articolazione psichiatrica e reparto sanitario. «L’area sanitaria – spiegano – segnala che almeno un quarto della popolazione detenuta fa uso di psicofarmaci e terapie farmacologiche. Nelle sezioni visitate vige un sistema di celle aperte, sebbene con orari differenti». Insomma non è un inferno, ma alcune criticità ci sono. «Il buon funzionamento dell’articolazione psichiatrica sconta problemi di inadeguatezza strutturale». A partire dalle celle che non hanno docce.
Il carcere di Secondigliano ospita 1.187 detenuti a fronte di una capienza di 1.073 posti e sul piano delle attività trattamentali risulta essere tra le strutture più organizzate tanto da ospitare il polo universitario penitenziario e iniziative come quella organizzata con il Carcere possibile onlus, presieduta dall’avvocato Anna Maria Ziccardi, e l’artista Alessandro Ciambrone che realizzerà gratuitamente due murales uno dedicato al vesuvio, castel dell’Ovo e tutti i luoghi iconici della città, l’altro, interno, di Spaccanapoli con San gennaro e Maradona. Al suo fianco alcuni detenuti che si cimenteranno in acrilici e pennelli. L’idea della direttrice Giulia Russo è di portare arte e bellezza nei luoghi di sofferenza e di pena con l’obiettivo etico di risvegliare nelle coscienze dei detenuti e nella loro sensibilità l’amore per la vita, la possibilità di riscatto sociale. Si tratta di un progetto artistico pilota che dopo Secondigliano si sta pensando di estendere anche ad altre carceri.
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