L’Europa e la tragedia afghana. Il dovere della solidarietà e il rischio dell’indifferenza. Il Riformista ne discute con padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli, sede italiana del Servizio dei Gesuiti per i rifugiati.

«Ascolta Mattarella: Europa, riapri le porte ai fratelli senza diritti». Così questo giornale ha titolato un appassionato articolo di monsignor Vincenzo Paglia che parte dai drammatici accadimenti in Afghanistan. L’Europa quelle porte le continua a chiudere?
A fronte delle conclusioni dell’ultimo Consiglio avuto il 31 agosto, l’Europa ha perso l’ennesima occasione di dimostrarsi un continente all’altezza dei diritti che vuole promulgare e sostenere. In questo Consiglio si è andati nella direzione di non aprire le porte agli afghani ma cercare di tenerli il più possibile lontani. Un continente che si fa portavoce dei diritti deve poi essere disposto, concretamente, a pagare personalmente, direttamente, per questi diritti che sono stati in passato anche frutto di tanta sofferenza. Oggi i nostri fratelli di altri continenti ci chiedono di essere testimoni della forza di questi diritti.

«Quanti altri Afghanistan dovremo sopportare? Svegliamoci», scrive monsignor Paglia.
Purtroppo come conseguenza di questa paura dell’Europa, di questo atteggiamento di difesa, c’è questa progressiva assuefazione al dolore degli altri. Nel tempo sempre più noi diventiamo indifferenti al dolore del fratello che è fuori dai nostri confini. E allora magari per un attimo, che è l’attimo dell’attenzione mediatica, siamo anche disposti ad accogliere le persone in difficoltà ma poi passata questa onda emotiva ci dimentichiamo molto rapidamente e quindi non instauriamo quelle politiche che sono politiche di solidarietà, di accoglienza, di attenzione che non ci facciano cadere nell’assuefazione.

Papa Francesco, ricorda monsignor Paglia, ha scritto frasi chiare nell’Enciclica Fratelli Tutti. Una per tutte: «Comprendo che di fronte alle persone migranti alcuni nutrano dubbi o provino timori. Lo capisco come un aspetto dell’istinto naturale di autodifesa. Ma è anche vero che una persona e un popolo sono fecondi solo se sanno integrare creativamente dentro di sé l’apertura agli altri». Da questo punto di vista, l’Europa non è “feconda”…
Negli ultimi anni, chiudendosi su se stessa l’Europa rischia di diventare sterile da questo punto di vista. Di non essere feconda, perché sappiamo benissimo che l’operazione di integrazione è un’operazione bidirezionale, in quanto non coinvolge soltanto chi arriva ma anche chi accoglie, quindi è un cammino che si compie insieme e che apre ad un futuro che è un futuro diverso. Diverso dalla progettazione delle persone coinvolte, perché è un progetto comune. Però se non siamo disposti a tornare a questo ascolto reciproco e a questa progettazione condivisa, rischiamo di essere sterili, di diventare un continente vecchio, che non sa guardare al futuro che è invece un futuro multiculturale, multietnico e che deve sforzarsi di integrare le differenze, ma direi di più, di far partecipare le differenze al proprio interno, nelle proprie istituzioni.

In queste settimane così tumultuose in Afghanistan, molto si è discusso su dialogare sì, dialogare no con i Talebani e il governo che stanno per formare. Dialogo è una parola basilare nel “vocabolario della solidarietà e dell’ascolto” dell’attuale pontificato. Ma di fronte a persone che trattano le donne come fanno i Talebani, non devono essere posti paletti molto rigidi al dialogo?
Dialogo non vuol dire resa incondizionata o comunque appiattimento delle posizioni, ma vuol dire confrontarsi in modo onesto, tenendo conto delle proprie posizioni. Il dialogo deve essere per sua natura franco e deve sottolineare quegli aspetti che fanno parte della tutela e dei diritti delle persone. Dialogo non è soppressione delle proprie identità ma è un confronto che può essere anche serrato, non prescindendo dai valori e dai principi dai quali si parte.

Lei ha scritto, assieme a Chiara Tintori, un bel libro La trappola del virus. Diritti, emarginazione e migranti ai tempi della pandemia (Edizioni terra santa). Il libro, scrivono gli autori ha «l’umile ambizione di essere una sorta di vaccino alla globalizzazione dell’indifferenza, un virus di cui siamo affetti tutti». Padre Ripamonti a questo “virus” non è stato ancora trovato il “vaccino” giusto?
Il timore è proprio questo. Che questo “virus” della globalizzazione dell’indifferenza si impadronisca del nostro presente e del nostro futuro. Come è successo per altre situazioni in passato, il rischio è che l’indifferenza ci colga anche per la popolazione afghana. Quella responsabilità che noi abbiamo nei confronti, in generale, dei nostri fratelli, e nel caso specifico della popolazione afghana. Non va dimenticato, peraltro, che l’Occidente è stato per vent’anni su quel territorio, una ragione in più perché questa responsabilità non debba scemare così rapidamente. È una responsabilità che noi abbiamo nei confronti della situazione di questo popolo, e in modo particolare dei civili, delle persone più vulnerabili e quindi dobbiamo guardare al futuro tenendo conto di questo, non dimenticandocene e diventando indifferenti a questa situazione o peggio affidando ad altri il lavoro sporco di contenimento dei flussi che nei prossimi mesi potrebbero realizzarsi, a partire dall’Afghanistan. Vede, in un tragico gioco degli specchi cui siamo costretti ad assistere da anni, l’Europa si continua a definire in pericolo, sotto attacco e in situazione di perenne emergenza, ritenendo di dover proteggere se stessa da uomini e donne disperati in fuga da guerre e crisi umanitarie.

Come presidente del Centro Astalli, cosa si sente di chiedere al Governo italiano?
La fine di accordi di esternalizzazione, proposti anche per gestire la crisi afghana: il fallimento degli ultimi anni, il costo in termini di vite umane e la condizione di ricattabilità in cui ci si va a porre li rendono da ogni punto di vista inadeguati e deprecabili; l’apertura di vie di ingresso legali per i richiedenti protezione internazionale dall’Afghanistan e dalle aree di crisi del Mediterraneo; programmi di accoglienza e integrazione per quote significative di rifugiati da gestire con meccanismi di corresponsabilità e ripartizione tra tutti gli Stati Ue. Una politica inclusiva si nutre di questo. Il punto non è se ciò è praticabile. Il punto è se si ha la volontà e il coraggio politico per muoversi in questa direzione.

Tra pochi giorni, si celebrerà il ventennale dell’11 Settembre, il devastante attacco alle Torri Gemelle condotto da al-Qaeda. La guerra in Afghanistan fu giustificata dagli Stati Uniti, dall’allora presidente George W.Bush, come risposta a quegli attacchi che causarono tremila morti. Ora che, vent’anni dopo, l’ultimo marine ha abbandonato Kabul, le chiedo: quella guerra cosa ha portato realmente?
I risultati di quella guerra sono sotto gli occhi di tutti. Con la partenza dell’ultimo marine sembra che si sia ritornati alla situazione di venti anni fa. L’evento delle Torri Gemelle e la guerra che ne scaturì, hanno anche innescato nell’immaginario collettivo il binomio migrazione-straniero=terrorismo. Il che ha minato anche tutto un atteggiamento culturale degli anni successivi al 2001. Noi facciamo sempre più fatica a immaginare i flussi migratori, le persone straniere scindendoli dalla dimensione del terrorismo e della violenza. Forse avremmo bisogno di ritornare ad una purificazione anche dello sguardo e immaginare i flussi migratori come parte strutturale del nostro mondo globalizzato e ripartire, appunto, con uno sguardo purificato per guardarci non con paura ma con desiderio di confrontarsi e costruire un futuro diverso. Quell’11 Settembre è stato una ferita di cui ci portiamo ancora le conseguenze. Occorre in qualche modo ripartire come popoli che vogliono costruire un futuro insieme.

Si parla sempre, in alcuni casi a sproposito, il termine “diritti”. Ma qualche volta questa Italia “smemorata”, e il discorso può e deve essere allargato all’Europa e all’Occidente, non dovrebbe ricordarsi che esistono anche dei “doveri”. Ad esempio, il dovere dell’inclusione e della solidarietà?
Io credo che diritti e doveri un po’ si richiamino a vicenda. È importante che i diritti siano diritti effettivi, diritti esigibili, ma dall’altra parte ci si assuma la responsabilità, i propri doveri, perché il diritto che voglio per me sia garantito anche per le altre persone che vivono con me, a fianco a me, e non si trasformino questi diritti in privilegi, trasformando invece il dovere che io ho di garantire un diritto anche agli altri, in qualcosa che non è così. Io credo che sia importante che diritti e doveri vadano insieme. Un diritto si sostiene anche assumendosi la responsabilità del dovere che noi abbiamo nei confronti degli altri cittadini e in generale delle altre persone.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.