Roberto Baggio ha messo d'accordo tuti
Italiani popolo di santi, poeti, navigatori e baggisti
Avevo un amico che una volta mi ha raccontato che quando era piccolo seguiva chiunque avesse un codino. Solidarietà quindi alla madre, al padre, ai familiari e tutori tutti: non è difficile immaginarli terrorizzati sulla spiaggia o al centro commerciale o in gita quando scoprivano di aver perso il piccolo che usava seguire qualche sconosciuto solo apparentemente a caso. E solidarietà anche a mio padre, fervente interista, che per qualche anno ha dovuto sopportare un figlio juventino in casa. Perché tifavo qualsiasi squadra in cui giocava Roberto Baggio. Un tifo atipico: per niente fedele, e sempre fedele. Solo qualche anno fa ho scoperto che quell’atteggiamento aveva un nome.
Baggista, dalla Treccani: “Chi o che fa il tifo per il calciatore Roberto Baggio”. Nessuna monogamia, nessun obbligo di volare di club in club seguendo il Divin Codino, neanche il dogma fanatico dell’Iglesia Maradoniana. Un credo laico, libero culto in libero calcio. Scriveva Gianni Mura su Repubblica in occasione dell’amichevole, Italia-Spagna, in tributo a Baggio a Genova, il 29 aprile 2004: “Tanti striscioni, tante rime ingenue, tanti giochi di parole, alla fine quello che univa tutto era una militanza baggista che è anche un modo di vedere, di sentire il calcio”. E l’interista Nando Dalla Chiesa, qualche anno prima, sui dissidi tra il fantasista e Marcello Lippi, al Corriere della Sera aveva osservato come “su questo punto Lippi non ci senta. E allora io, da baggista convinto, consiglio a Baggio una cosa: vada alla Reggina. Avrebbe un pubblico entusiasta, potrebbe far vedere di nuovo a tutti chi è Baggio, anche quando non gioca con uno squadrone alle spalle. Personalmente, pur di vederlo in campo, andrei in Calabria ad assistere al suo esordio”.
Il Divin Codino è riuscito meglio di Cavour a unire l’Italia, nel suo rissoso e campanilistico Bar sport. Quando si litiga su chi sia stato più forte tra Totti e Del Piero, Cannavaro o Nesta, Vieri o Inzaghi, se qualcuno tira fuori Baggio la conversazione si arena; “eh, Baggio …”, e finisce più o meno lì. E nonostante si sia ritirato, lontano dai riflettori, ad Altavilla Vicentina, tutto campagna e famiglia, non se n’è mai andato: il ricordo è vispo. Come ha dimostrato il film Il Divin Codino, uscito su Netflix il 26 maggio, diretto da Letizia Lamartire e interpretato da Andrea Arcangeli.
Film che non ha entusiasmato tutti, qualcuno ha preferito l’episodio di Ossi di Seppia – Il rumore della memoria su Raiplay, altri hanno ricordato una memorabile puntata di Sfide. Sempre, con scelte e intreccio diverso, il racconto di un cerchio che non si chiude, il rigore di Pasadena che lo mette un passo indietro ai più grandi di sempre, le discese ardite dei tanti infortuni e le risalite al limite del miracoloso. Una sceneggiatura tragica, con il fallimento e la gloria, provincia profonda e palcoscenico internazionale, spiritualità e ribellione.
“Era unico, poetico, gracile e bellissimo”, dice John Foot, storico inglese, Professore di Storia Moderna Italiana all’Università di Bristol, autore di numerosi volumi sulla storia italiana e – in particolare Calcio – Storia dello Sport che ha fatto l’Italia (Rizzoli) – sul pallone. “Era un genio, ma in un modo tutto suo. Ha avuto la sfortuna di giocare nel periodo peggiore per uno come lui, con pressing sacchiano e l’eliminazione della fantasia, e quindi si è trovato molto meglio in provincia. Sono convinto che avrebbe vinto il Mondiale del ‘94 da solo (come ha praticamente portato l’Italia da solo in finale con gol e assist) senza l’infortunio in semifinale. Sempre in lite con gli allenatori, perché doveva essere lasciato libero, è stato il migliore che abbia mai visto”.
Baggio non ha consacrato la sua carriera a una maglia come Totti e Del Piero. Non è stato del bomberismo come Bobo Vieri che pare che a Madrid, durante la sua stagione all’Atlético, appendesse l’intimo delle sue conquiste in camera da letto – è invece stato un emblema di probità, buddhismo e famiglia, in un’Italia terremotata da Mani Pulite, e che di onestà e linearità aveva una fame anche rapace. È stato “bomber di provincia” prima che i “bomber di provincia” diventassero un archetipo – e dalla provincia, effetto squadra-simpatia, non ha compromesso le ambizioni delle grandi tifoserie; questo pure conta. È diventato l’uomo comune con il rigore contro il Brasile – centimetri sulla volé contro la Francia nel 1998 e la convocazione saltata nel 2002 gli hanno impedito di recuperare in parte quell’incubo. Non ha litigato con i suoi allenatori per delle “cassanate” (sempre dalla Treccani) come uno dei pochi che avrebbe potuto raccogliere il suo testimone. È stato emblema di spiritualità, forza gentile, ed è stata sottovalutato invece il suo spirito anarchico, in campo e fuori, nel tocco di classe, ribelle in un calcio che si andava facendo sempre più sistema. Non ha avuto dietro il marketing che la sua immagine – così comune nel fisico, con quel codino invece eccentrico – avrebbe meritato e comunque è finito in una puntata di Holly e Benji; e comunque è diventato un’icona mondiale.
Forse soltanto Gigi Riva – che invece alla maglia e alla provincia dedicò la sua vita, e che da Cagliari lanciò e riuscì l’assalto allo Scudetto, funestato anche lui dagli infortuni, ma protagonista tuttavia di un calcio troppo lontano, in bianco e nero – aveva raccolto trasversalmente un credito simile presso il tifo italiano. Nessun culto però. Da quando Baggio non gioca più non è più domenica, e non è più arrivato un campione che appartenesse a tutti, o a quasi tutti, come Baggio. Lo ha raccontato bene, meglio di tutti forse, Renzo Ulivieri, che a Bologna, una domenica, lasciò il campione in panchina, e che quando tornò a casa trovò la porta chiusa. “Chi non fa giocare Roberto Baggio, in casa mia non entra!”, lo rimproverò la madre al citofono. Quella sera l’allenatore dormì in albergo.
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