Sebbene sembri limitarsi a una cadenza stagionale l’attenzione ad agosto sulle condizioni delle carceri, allorquando si chiudono i tribunali, riteniamo che i diversi articoli in questi giorni su questo giornale di denuncia delle condizioni di disagio e sovraffollamento presenti siano di estrema rilevanza. La situazione carceraria rappresenta, infatti, una spia del funzionamento e delle distorsioni del nostro sistema penale. Una riflessione che in quest’anno di Covid assume una valenza ancora più densa di significati se consideriamo che è in questo scenario che vanno lette le tragiche rivolte di marzo e susseguenti polemiche e ricadute politiche.

Il ricorrente tema della depenalizzazione o del diritto penale minimo risponde a criteri di garanzia di uno Stato di diritto, a una concezione della pena che non sia carcerocentrica, a un’idea della risoluzione dei conflitti sociali che non sia totalmente delegata alla pena e allo spettro della punizione e, in ultimo, a un’esigenza di razionalizzazione del sistema dinanzi alla proliferazione di sempre nuovi illeciti penali. I tentativi compiuti nel nostro Paese, in passato, hanno avuto una modesta portata in quanto, a partire dagli anni Novanta, si sono scontrati con un processo di iperpenalizzazione (cioè di introduzione di nuove fattispecie di reato e aumento dei massimi edittali di pena) compiuto da un legislatore che ha cavalcato e recuperato le dimensioni più simboliche ed emotive del diritto penale finalizzato a inseguire solo il consenso elettorale e scaricando così sul mondo dell’esecuzione penale, variamente inteso, una serie di problematiche sociali altrimenti non governate.

Si pensi all’immigrazione e alla condizione di tossicodipendenza in carcere. Lo stesso legislatore poi, ciclicamente, in maniera apparentemente schizofrenica, per fronteggiare i problemi del sovraffollamento carcerario e rispondere alle condanne ricevute in sede europea, è stato “costretto” a promulgare provvedimenti, su basi esclusivamente deflattive, capaci di facilitare la fuoriuscita dei detenuti dal circuito penitenziario e il loro accesso alle misure alternative. Basti pensare che, in base ai dati ministeriali, tra il 2012 e il 2019 si è registrato un calo del 9% delle presenze in carcere (da 66.695 a 60.611) e un aumento del 125% tra le misure di comunità (da 25.524 a 57.391).

Se questi dati possono confortare in quanto attestano un calo del ricorso alla pena detentiva, per un altro verso certificano un aumento decisamente considerevole del numero complessivo delle persone sanzionate sotto il controllo dello Stato. In tale situazione i giuristi denunciano che l’effetto combinato di iniziative legislative meramente repressive con interventi volti alla riduzione della popolazione detenuta producono effetti contradditori. Da un lato c’è il rischio che la pena si riduca a una mera minaccia generando un’idea diffusa di impunità in un’opinione pubblica che concepisce solo il carcere, dall’altro si sovraccaricano di un peso considerevole gli uffici di esecuzione penale esterna, rendendo più difficoltoso il perseguimento delle finalità rieducative delle diverse misure.

A fronte di tale situazione una “seria” depenalizzazione può essere la chiave di volta per invertire questa tendenza? A prescindere dal momento politico che non sembra favorevole, gli studi sociologici e criminologici hanno evidenziato un limite fondamentale in questo tipo di impostazione, ovvero il prefigurare una corrispondenza lineare tra il quadro dei riferimenti sanzionatori e l’andamento della penalità in concreto. L’andamento della penalità in concreto è condizionato da una molteplicità di fattori (globalizzazione, ristrutturazione del sistema del welfare, l’insorgere del problema della insicurezza in settori sempre più vasti della popolazione) e non risponde al solo riferimento normativo. Con ciò non si vuole sostenere che i provvedimenti legislativi in questione non abbiano avuto un’influenza nei processi di crescita della popolazione penitenziaria o in un loro eventuale calo, ma che sarebbe limitativo considerarli come determinanti.

Allontanandoci dalla depenalizzazione in senso stretto e spostandoci sul funzionamento della penalità in concreto, sappiamo che in seguito alle condanne europee il legislatore ha promulgato dei provvedimenti (il cosiddetto Svuotacarceri) volti ad alleggerire le nostre carceri, per un verso, favorendo la fuoriuscita dei detenuti a fine condanna, per l’altro, evitando l’ingresso in carcere dei condannati con pene brevi. Ebbene le nostre carceri, a dicembre 2019, registravano la presenza di 60.769 detenuti. Di questi il 68,3% ha lo status di condannato definitivo, la restante parte, poco più del 30%, si trova in attesa di giudizio. Concentrandoci sui condannati definitivi (41.531) e considerando la pena inflitta osserviamo che circa il 23% di questi è in detenzione per una condanna non superiore ai tre anni. Se invece si analizzano i dati in base al residuo di pena, si osserva addirittura che nel 55% dei casi si sta scontando un residuo non superiore ai tre anni.

In teoria potremmo ritenere che entrambe le categorie di detenuti avrebbero i requisiti per usufruire delle varie misure sopramenzionate e allo stesso tempo potremmo ipotizzare una molteplicità di motivi che ne impediscano la fruizione, ma ciò che ci preme sottolineare è che questi dati dimostrano come la normativa non produca degli automatismi. Un discorso differente merita il tema della legge sulla droga e la condizione della tossicodipendenza in carcere, temi per i quali si imporrebbe un cambio di paradigma. A prescindere dalle varie impostazioni etiche o culturali, è un fatto oggettivo che la legislazione proibizionista in vigore produce una situazione per la quale il 34,8% dei detenuti è in carcere per violazione della legge sulla droga (il 23,8% a causa della sola la violazione dell’articolo 73 del Testo unico, sostanzialmente per detenzione a fini di spaccio).

Se colleghiamo questi freddi numeri alle tragiche cronache delle rivolte di marzo che hanno visto 12 detenuti morire per overdose in seguito agli assalti alle infermerie degli istituti, allora l’impellenza di una revisione della legislazione diventa eclatante. Se la strada della depenalizzazione ha un senso, non deve essere intrapresa per mascherare aspetti repressivi di facciata o rivolgendosi a esclusivi reati bagatellari. Tuttavia la strada più efficace per rispondere ai requisiti di giustizia in uno Stato di diritto restano processi celeri, riduzione della custodia cautelare, applicazione delle misure alternative di esecuzione della pena, penalità carceraria per i reati più gravi in condizioni penitenziarie riparative, umane e fondate su contemporanee politiche di recupero e reinserimento sociale.

Giacomo Di Gennaro, Andrea Procaccini

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