L’etica. La trasparenza. Il rigore morale. Quei valori che Sigfrido Ranucci predica per gli altri, non valgono per Report. Non per quella sua azienda nell’azienda, anzi: per quella fabbrica che è diventata la trasmissione di cui il vicedirettore di Rai Tre è autore e conduttore. Una fabbrica di dossier costruita su mandati precisi e diretti e realizzata grazie a relazioni arcane, commistioni oscure e commesse scottanti.

Il Riformista, usando gli strumenti di inchiesta giornalistica di cui troppo spesso Ranucci si è fatto portabandiera, ha guardato dentro al “metodo Report”. Partendo da quei messaggi – sparati come colpi al cuore, in quel suo sfogo “da un uomo a un altro uomo” – con cui il conduttore Rai si è rivolto al deputato Andrea Ruggieri e al senatore Davide Faraone. “Abbiamo 78.000 dossier”, aveva sparato per intimidire (o ricattare?) i parlamentari che in Commissione di vigilanza da troppo tempo osano inarcare un sopracciglio. L’iperbole non distragga: conta il metodo. Il come e non il quanto. E il metodo è terrificante. Quello messo in atto da Ranucci nel tempo è un mercanteggiamento di video, di piste, di ipotesi accusatorie fondate su filmati ottenuti con formule di inscatolamento indegne del servizio pubblico.

Proviamo a immaginare Ranucci che, seduto al tavolo di un ristorante, incontra tre persone. Una sta con lui, due invece sono freelance di un service videogiornalistico. L’appuntamento è stato concordato perché i freelance avrebbero del materiale che risponde a una sua esigenza: un video che potrebbe “incastrare”, come si ama dire a Report, un politico. Ranucci si presenta in veste di acquirente e spiega agli ignari astanti come funziona il meccanismo. Come funziona? Il mercato nero di Report prevede “una formula”, come la chiama Ranucci. «Voi mi date del materiale grezzo, montato su una mini-cassetta. Non la avete? Ve la fornisco io. E la Rai paga». Si legga: paghiamo noi contribuenti. Ma per cosa? Per ottenere dai due “videosicari” un video “rubato” che esporrebbe qualche vizio segreto di un rappresentante delle istituzioni, con quella che il conduttore definisce “una prassi”. Eccola: «Da un lato entra del materiale grezzo con un titolo di fantasia, che ne so, immagini da Crotone». Un girato che non ha alcuna attinenza con il servizio che in realtà, nei disegni di Ranucci, va costruito. E che quindi non andrà mai in onda, ma che serve come copertura per la fatturazione.

Nel mirino di Ranucci adesso c’è un politico del Nord. E per depistare, va scritto che si tratta di un filmato sulla Calabria. «Il materiale che entra viene pagato dalla Rai», assicura. Gli interlocutori a quel punto lo interrogano. Faranno controlli? «La Rai controlla, sì, ma voi come service fate cose anche legali, no? Bene, la Rai verifica che voi esistete e che il materiale c’è, poi io garantisco che ha un interesse giornalistico importante e vi faccio mettere in pagamento la fattura». Dove sta l’inganno? Che in realtà deve entrare anche la cassetta con il materiale che scotta, quello che i freelance avrebbero in mano. E deve entrare in Rai con una busta anonima. Spedito con tutti i crismi dell’anonimato assoluto. «Decidiamo da dove. La busta la possiamo far arrivare, senza mittente, da Bolzano, da Roma, Milano, Verona, Padova, Piacenza… La posso far mandare da dove decidiamo che sia il posto più sicuro. E a qualsiasi persona che mi dovesse chiedere da dove mi è arrivata, dirò solo che è arrivata in redazione questa busta anonima». E si premura di aggiungere: «Dirò che ho fatto delle verifiche, punto. E la storia finisce là».

Di nuovo, chi siede di fronte a Ranucci mostra qualche timore. «A tutela tua, io posso costruire tutta la storia in un altro contesto. Posso ricostruirla in qualsiasi maniera. E farla arrivare in maniera anonima». Messa in sicurezza la fonte, attraverso una giostra di contromisure per confondere gli eventuali controlli Rai, Ranucci passa al dunque. «Per quello che riguarda il compenso, ho portato dei moduli che vanno riempiti. Ovviamente non dovete mettere i nomi vostri. Dovete trovare delle persone o società che ci vendono del materiale grezzo. Fittizio. La descrizione del materiale acquisito non ha nulla a che vedere col video che mi è arrivato invece da voi».

E qui torna la sua ‘assistenza’. «Se non avete un girato grezzo su altro da venderci, ve lo do io», aggiunge. Per capirci: il vice direttore di Rai Tre fornisce a un service di videomaker esterni del materiale già in suo possesso per consentire a dei loro prestanome di inscenare la cessione fittizia dei diritti sullo stesso filmato. «Io non voglio sapere i nomi che metti. Mi devi però far avere un’ora, un’ora e mezza di materiale grezzo». È quella la merce di scambio, ottenuta la quale il vero motivo di interesse di Ranucci potrà materializzarsi per magia, attraverso l’invio di un plico anonimo con il girato, magari brevissimo, “esfiltrato” dall’entourage del politico messo nel mirino. «Ecco i moduli per l’operazione», dice Ranucci passandoli nelle mani dei fornitori, comprensibilmente titubanti.

«È una cosa testata?», chiedono preoccupati. «Ma certo. Io ho del materiale mio perché sono interno Rai ma tanti comprano materiale da fuori, questa cosa qui va in mezzo a diecimila altre cose», dice confortante. Uno dei due alza la posta e rappresenta un suo problema. Una grana di natura giudiziaria. «Io non potrei nemmeno stare in Italia…», accenna. Ranucci non si scompone. Anzi, capisce che è l’occasione per fare un passo in più, metterli in condizione di fidarsi. E stabilisce un livello di complicità supplementare. «Fammi capire, tu hai bisogno di aiuto per tornare in Italia?», chiede. Il postulante non si tira indietro. «Per tornare in Italia ho bisogno di una gran mano». E qui Ranucci sfodera i super poteri. «Se tu me lo dici io ti posso chiamare il comandante del Ros adesso. Senza dire chi sei e chi non sei, ti prendo un appuntamento. Anche adesso, te lo chiamo davanti a te. È un comandante che si è fatto 12 anni di Reggio Calabria, conosce tutte le famiglie. Ha memoria storica. Ed è collegato con i servizi segreti».

L’atmosfera si elettrizza, gli fanno domande. «È il capocentro di Roma», sottolinea il conduttore di Report. E poi si inoltra in una selva oscura di rapporti: «Ti ci faccio prendere un appuntamento, loro stanno cercando queste cose qua», dice con riferimento ai video che i due potrebbero, adeguatamente compensati, vendere per interposta persona. Se fino a quel punto la spalla di Ranucci era rimasta in silenzio, sa di dover entrare in scena adesso. «Non sta scherzando, ho sentito io l’altro giorno che lo chiamava», aggiunge per dar manforte all’amico.

«Cioè mi ha chiamato lui, a me», specifica Ranucci. Parlano tutti insieme, si fatica a distinguere i ruoli: Ranucci vuole acquisire del materiale che interessa ad ufficiali dei servizi? Vuole blandire gli interlocutori con qualche favore personale per “arruolarli” e convincerli a cedergli un girato particolarmente scottante? Certamente vanta amicizie con l’intelligence per rassicurare questi neofiti del mercato nero del videodossieraggio. Ha le spalle coperte: la Rai in pugno, i servizi a fianco. Qualcosa però stavolta non gira per il verso giusto. Nella fabbrica dei dossier un ingranaggio si inceppa, e lo smascheratore finisce smascherato.

Avatar photo

Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.