È da oggi all’esame delle Camere un nuovo regolamento depositato in Parlamento dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia. La Guardasigilli vuole dettare regole più stringenti ai magistrati sulle inchieste: niente più nomi a effetto, da fiction, spettacolo invece che Giustizia. È anche l’Europa a chiedere ai 27 Paesi membri di rafforzare il principio della presunzione d’innocenza verso i propri cittadini. Potrebbe quindi essere la fine di un’epoca, per magistrati e giornalisti, d’oro. Un’era durata almeno tre decenni e che potrebbe essere scandita dai nomi a effetto delle inchieste.

Che cosa prevede il Regolamento? Poche ma semplici regole. Per esempio le conferenze stampa dei procuratori, da limitarsi a casi di “particolare rilevanza pubblica dei fatti”, durante le quali il magistrato non dovrà presentare l’indagato come colpevole; si dovrà spiegare il punto al quale è arrivata la verità giudiziaria; l’indagato potrà chiedere di modificare un atto tramite il suo avvocato se si sentirà leso perché presentato come colpevole. E questo solo per cominciare. All’articolo 3 del Regolamento si legge infatti: “È fatto divieto di assegnare ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza”.

La Stampa, che riporta la notizia, ricostruisce una breve cronologia a partire dalla celeberrima Pizza Connection degli Anni Ottanta – con l’Fbi, il procuratore Luis Freeh e il procuratore federale Rudolph Giuliani dagli Stati Uniti e la polizia giudiziaria di Palermo, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in Italia a colpire la Mafia tra i due continenti. La paternità di quel titolo fu tutta americana. Per Falcone e Borsellino il fascicolo era ancora “Abbate Giovanni+ 706”, al massimo “Maxiprocesso”. Quel nome suonò come il rumore di una bottiglia appena stappata.

Da dettagli, particolari, virgolettati di protagonisti o estrapolati dalle intercettazioni, o dalla semplice fantasia delle forze di polizia. Sono arrivati negli anni “Mani Pulite”, “Why not”, “Aemilia”, “Geenna”, “Poseidone”, “Vallettopoli”, “Vipgate”, “Crimine-Infinito”, “Savoiagate”, “Mafia Capitale”. Quest’ultimo caso anche spendibile nel marketing, a prescindere dalla stessa inchiesta: la Cassazione, per esempio, dopo anni di fiction sui giornali e sugli schermi, ha sancito che il “Mondo di Mezzo” al centro di quelle indagini non era un’associazione di stampo mafioso. E Amen.

“Questa spettacolarizzazione della giustizia – l’osservazione citata del deputato Enrico Costa, Azione, relatore alla Camera – produce danni immensi a chi finisce nell’ingranaggio. Quando infatti a un’inchiesta viene dato un titolo accattivante, e spesso la conferenza stampa è accompagnata da spezzoni di video con pedinamenti e intercettazioni che sembrano un trailer perfetto, la pubblicità è garantita. I media e i social moltiplicheranno quel titolo e quel trailer all’infinito. Come il lancio di un film. Tutto è ben studiato. Pare che da qualche parte ci sia perfino un ufficio che esamina la proposta di marchio e verifica che non ci siano sovrapposizioni con altre inchieste precedenti. Peccato però che di questo film si diano solo i titoli di testa, e mai quelli di coda che arriveranno con le sentenze. E intanto, se si finisce indagati, associati a un marchio di tale successo, anche se poi uno è assolto, il danno è irrimediabile”.

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Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.