Nicola Gratteri si è scagliato nuovamente contro la riforma Cartabia. Non è il solo tra i magistrati con tendenze politiche. Del resto è passata l’idea, in Italia, che se un politico critica la magistratura è un farabutto, se un magistrato critica una legge del governo o del Parlamento è una persona benemerita, e va ascoltata, perché almeno le leggi sulla giustizia sarebbe meglio se le facessero i magistrati.

In realtà un po’ è vero: la possibilità di fare direttamente loro le leggi, e di modificarle quando serve, è l’unico potere che ancora non è stato riconosciuto ai magistrati. In particolare ai Pm. I Pm, secondo l’idea condivisa un po’ da quasi tutti i partiti, possono “dettare” le leggi. E lo fanno spesso. Ma hanno bisogno di un certo numero di parlamentari che poi gliele votino. Altrimenti le leggi non entrano in vigore. E questa – lo capite facilmente – è una forte limitazione dei poteri della magistratura. Un modo per legargli le mani. Negli ultimi decenni i Pm hanno aggirato il problema perché hanno sempre trovato parlamentari e governi ben disposti nei loro confronti. I quali scrivevano e votavano le leggi che i Pm chiedevano loro, quando chiedevano loro, come chiedevano loro. Poi i Pm sono riusciti addirittura a piazzare in Parlamento un vero e proprio gruppo parlamentare, anzi, il più numeroso dei gruppi parlamentari (dal 2018) e cioè i 5 Stelle.

Ora però le cose sono un po’ cambiate. Draghi ha messo alla porta il fedele Bonafede, che di diritto ne sapeva poco ma era piuttosto obbediente ai Pm (e quando non lo era si prendeva delle sgridate epiche, tipo quella rimediata da Di Matteo e da Giletti). E ha insediato al ministero una professoressa che conosce il diritto un po’ troppo bene ed è abbastanza affezionata allo Stato di diritto. Dico Marta Cartabia. Questo ha mandato in bestia l’Anm e il partito dei Pm. Cosa ci sta a fare una giurista al ministero della Giustizia? In realtà Nicola Gratteri non è un esponente dell’Anm e nemmeno del partito dei Pm. È una avanguardia. Sta avanti. Tocca a lui anticipare le battaglie. Così ha fatto anche stavolta, parlando a un festival politico a Lamezia Terme, dove ha tirato a palle incatenate contro Marta Cartabia e la sua riforma. La quale consiste, in soldoni, nel ripristinare alcuni principi che rispondano all’articolo 111 della Costituzione, che prevede, per l’imputato, il diritto a una giusta durata del processo.

La riforma Bonafede (targata Lega e 5 Stelle) aveva abolito questo principio. Stabilendo termini infiniti di prescrizione al processo di primo grado (sette anni per furto di mele, venti o trenta per truffa aggravata) e abolendo del tutto la prescrizione dopo la sentenza, persino se di assoluzione. In sostanza tu potevi essere processato per una decina d’anni, per un reato mediamente grave, sospeso da tutti i tuoi diritti ed eventualmente tenuto un po’ in prigione, poi assolto perché assolutamente innocente ma, su ricorso del Pm, tenuto ancora sotto processo, probabilmente per tutta la vita (la fine della prescrizione ai processi di appello avrebbe indotto giudici e Pm a non avere alcuna fretta). Diciamo che dopo la sentenza di primo grado, qualunque essa fosse, l’imputato veniva consegnato legato mani e piedi al Pm che aveva il diritto di fare di lui quel che voleva.

La Cartabia ha pensato: ma nel 2021 non sarà necessario stabilire dei principi elementari di civiltà? E lo ha fatto (con molta, molta prudenza) ristabilendo la prescrizione in appello dopo un certo numero di anni. Siccome i 5 Stelle dicevano che ristabilire la prescrizione sarebbe stato uno schiaffo in faccia a Bonafede, che – poveretto – di schiaffi già ne aveva presi troppi – e questo è vero – si è deciso che invece di chiamarla prescrizione si sarebbe chiamata “improcedibilità”. Quanti anni può durare un processo di appello, ora, con l’improcedibilità? Due anni per i reati piccoli piccoli, tre per quelli più gravi, salvo proroghe (infinite) che possono essere concesse per tutti i reati con aggravante mafiosa, o per i reati di violenza, stupro eccetera; e un numero infinito di anni per tutti i reati gravi che, già prima di Bonafede, non godevano del diritto alla prescrizione. Per esempio l’omicidio.

Apriti cielo. Gratteri l’altro giorno ha tuonato, e ha spiegato che Borsellino e Falcone, se fossero ancora vivi, farebbero i diavoli a quattro contro questa riforma. Perché? Ma perché – si immagina – se la Cartabia fosse stata ministra quando loro facevano il maxiprocesso alla mafia, negli anni 80, il maxiprocesso sarebbe morto per via dell’improcedibilità. È vero? No, è falso. Il maxiprocesso si concluse con una ventina di ergastoli il 16 dicembre del 1980. Il calcolo dei tre anni di tempo per l’appello – secondo la riforma Cartabia – scatta, credo, dal momento nel quale viene presentato ricorso, qualche mese dopo la sentenza. Comunque calcoliamo pure che scatti dal momento della sentenza, cioè dal 16 dicembre dell’87. La sentenza di appello arrivò il 10 dicembre del 1990. In ogni caso meno di tre anni dopo la sentenza di primo grado. Aggiungiamo il fatto che comunque in presenza di reati con aggravante mafiosa sono possibili infinite proroghe. E poi consideriamo il fatto che per molti dei reati del maxiprocesso l’improcedibilità non esiste mai. Chiaro? Con la riforma Cartabia non sarebbe stato dichiarato improcedibile nessuno dei circa 300 imputati al maxiprocesso, tra i quali – ve lo ricordo – Luciano Liggio, Totò, Riina. Bernardo Provenzano, Michele Greco (“Il Papa”) Pippo Calò, Bagarella, Badalamenti, Bontate…

Si capisce che Gratteri è preoccupato per il suo maxi processo. Che lui ha sempre paragonato al maxiprocesso di Falcone. La verità è che i due maxiprocessi non si assomigliano molto. I reati contestati da Gratteri vanno dal traffico di influenze alla concussione. Al processo di Falcone erano contestati 120 omicidi. Se io ti influenzo un po’ o se ti faccio secco, ammetterete che una differenza c’è, no? Allora mi faccio la domanda: perché Gratteri ha citato Falcone e Borsellino, che con queste polemiche non c’entrano niente? Probabilmente non in malafede. Dubito, francamente, che Gratteri conosca bene la storia del maxi processo, altrimenti, immagino, non gli sarebbe mai venuto in mente di paragonare il suo “Scott” con quella ciclopica impresa giudiziaria, forse discutibile sul piano del diritto, ma clamorosa sul piano dei risultati.

Il maxiprocesso di Falcone e Borsellino, e del giudice Giordano, diede un colpo micidiale alla mafia. La quale reagì con atroci colpi di coda, ma non riuscì mai a riprendere la sua forza, il suo ruolo, ed ora è ridotta a poca cosa. La storia della ‘ndrangheta è un po’ diversa. Gratteri forse la conosce meglio della storia di Cosa Nostra... È dal 1986 – ha detto l’altro giorno – che è impegnato nel tentativo di sgominare la ‘ndrangheta. Che però, nel 1986 era una piccola organizzazione criminale, e oggi è la più potente organizzazione malavitosa del mondo. Non è andata benissimo la lotta di Gratteri alla ‘ndrangheta, direi.

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Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.