Il provvedimento approvato alla Camera
Perché la riforma Cartabia non piace ai magistrati
La prescrizione non scompare dal radar del processo penale, come pur sarebbe stato logico attendersi per dare un senso compiuto alla riforma Cartabia. Resta semisommersa, a pelo d’acqua come quei tronchi che galleggiano tra le onde e che tanto angosciano i piccoli battelli. Il procedimento penale nasce sotto il segno del tempo. La notizia di reato deve essere iscritta senza indugio nell’apposito registro e, da quel momento, il codice del 1989 detta le sue scansioni per le indagini preliminari. La clessidra parte, per poi essere girata sei mesi dopo e dopo altri sei mesi sino a che il tempo – un po’ più lungo per i reati gravi – non scorre del tutto e il pubblico ministero deve decidere se archiviare o rinviare a giudizio l’indagato.
Se si intraprende questa seconda strada il metronomo si ferma, il tempo processuale smette di correre e la prescrizione torna a galleggiare tra i flutti del procedimento penale. Con la riforma Bonafede, interamente confermata dalla Cartabia, è la prescrizione l’unica soglia temporale che occorre rispettare per la sentenza di primo grado. Uno spazio che varia da reato a reato e, quindi, da imputato a imputato: uno risponde di un delitto commesso nel 2020, l’altro di una contravvenzione del 2021; è chiaro che la prescrizione maturerà in momenti diversi. Nulla di anomalo se non fosse che il dibattimento di primo grado non ha un proprio orizzonte temporale per essere concluso se non quello della prescrizione. Ci sono reati che si prescrivono in decenni e, potenzialmente, nessuno mette fretta al giudice di primo grado perché arrivi a una conclusione con ragionevole durata.
La riforma Cartabia, invece, prevede un unico termine per la definizione del giudizio d’appello e di cassazione, indipendentemente dal reato per cui si procede e dall’epoca della sua commissione. Certo, con le eccezioni imposte dall’ultima mediazione politica, ma nel complesso si torna alla clessidra delle indagini preliminari che, fermatasi in primo grado, ricomincia il suo corso nelle fasi successive sotto spoglie diverse.
È chiaro che l’ircocervo non possa piacere ai puristi del protocollo penale. La fugace apparizione della prescrizione sino al primo grado giudizio e l’espandersi – dopo quella fase – della nuova improcedibilità, tendenzialmente uniforme e isocrona, lascia interdetti alcuni decenni di scuola penalistica. La prescrizione esprime in modo esemplare una concezione dello Stato e della pena. Se il legislatore è sovrano nello stabilire quali condotte siano meritevoli di sanzioni, parimenti è intangibile nella sua sovranità quando decide che il tempo passato dalla commissione del reato rende manifestamente superflua la pena. Prescrizione, amnistia, indulto costituiscono il triangolo perfetto della discrezionalità parlamentare. A latere c’è la grazia presidenziale.
Un giardino proibito alla giurisdizione che nulla può fondatamente opporre alle scelte del Parlamento che intervengano su questi profili della potestà punitiva dello Stato. L’aver optato, con la riforma Bonafede, nel senso che dopo la sentenza di primo grado permane a vita l’interesse dello Stato a conoscere dell’innocenza o della colpevolezza dei propri cittadini è una scelta francamente illiberale, prossima allo Stato etico che ha di mira una sorta di irraggiungibile purezza della cittadinanza. E’ una Stato che immagina di poter passare a setaccio i propri sudditi perché nessun delitto resti impunito; da ridere in una nazione che conosce milioni di reati commessi da ignoti di cui nessuno si cura. Una forma di eugenetica giudiziaria che punta alla selezione di una classe di cittadini immacolati e che è mossa dal morboso desiderio di sapere se una persona abbia o meno commesso la più minuta delle infrazioni.
Con la riforma Bonafede una guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze psicotrope per cui intervenga la sentenza di primo grado non si prescrive mai; poi duri quel che duri il seguito del processo non avrebbe avuto alcuna importanza. Con le modifiche della Cartabia almeno sappiamo che l’appello si deve completare in due anni e la cassazione in uno. Nulla per cui caschi il mondo e nulla di insopportabile. La gran massa dei reati (oltre il 70%) oggi si prescrive durante le indagini o in primo grado e questo né la riforma Bonafede né quella Cartabia potranno impedirlo, salvo qualche marginale pannicello caldo. Il restante 30% scarso si prescrive prevalentemente in appello, in minima parte innanzi alla Cassazione. Per impedire che questo, tutto sommato, modesto cluster di prescrizioni si verificasse il governo gialloverde ha deciso di adoperare un cannone contro un moscerino (rispetto ai reali problemi della nazione) che aveva quale conseguenza la soggezione dei cittadini ai tempi incerti e variabili della giustizia, teoricamente usque ad sidera.
Ora si profila una riduzione di questa incerta prospettiva con il rimedio dell’improcedibilità. Resta da chiedersi perché la riforma Cartabia piaccia così poco ad alcuni settori della magistratura. Innanzitutto, perché trasla dal legislatore ai magistrati il buon governo del processo e dei suoi esiti. Lo Stato proclama che è interessato a sapere dell’innocenza o della consapevolezza dei propri cittadini, a patto però che la magistratura gli consegni un risultato in tempi accettabili.
La prescrizione è quella prevista dalla legge poi spetta ai magistrati il tentativo di arrivare in tempo alla chiusura del processo. Ora l’improcedibilità disloca per intero sulle toghe, sulle loro capacità organizzative, sulla loro forza di dotarsi di standard affidabili di produttività a dispetto delle sacche corporative, sulle opzioni manageriali dei loro dirigenti degli uffici la missione di impedire che i processi vadano in fumo. La prescrizione resta, da un certo punto in poi, fuori dal processo, cristallizza l’interesse dello Stato alla sentenza finale, l’improcedibilità rappresenta invece il motore pulsante della giustizia penale. Prima delle prescrizioni non rispondeva praticamente nessuno, tra tante fasi e scansioni chissà chi era il responsabile del tempo impiegato; da domani ogni improcedibilità si ascrive al capo di corte e a un collegio che dovranno rendere conto del proprio operato e che, solo sino a un certo punto, potranno invocare le perenni emergenze della macchina giudiziaria a propria giustificazione.
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