È come il poker a carte coperte, ma si chiama “operazione ibrida”. Non si tratta di picche, cuori, quadri e fiori ma di terrore, incertezza, negazione e prepotenza. La Russia, secondo tutti gli esperti internazionali, sta giocando l’annunciata rivendicazione dei confini sia dell’impero zarista che dell’ex Unione Sovietica. Ieri sono state diffuse le mappe dei nuovi confini ucraini, così come sarebbero se la guerra si fermasse oggi, con un enorme vantaggio dall’inizio della guerra grazie al materiale bellico cinese che ha prodotto una profonda evoluzione tecnologica. Ma non basta. Putin ha bisogno di dimostrare sia ai suoi concittadini che ai suoi alleati (Cina e Iran) di avere una visione strategica e di poter mantenere le promesse delle conquiste territoriali, su cui poggia il consenso dell’estrema destra, guidata dal teorico dell’espansionismo imperiale russa, Aleksandr Dugin, cui Putin ha dato il compito di riorganizzare in senso nazionale e nazionalista la figura di maggior spicco: poliglotta, letterato e seguace della teoria della civiltà di Samuel Huntington e il satanismo di Aleister Crowley.

L’ultima operazione ibrida giocata su un bluff è consistita nel mettere in circolo la notizia di uno spostamento unilaterale (equivalente a un’invasione via terra) dei confini marini a spese di Lituania e Finlandia. Siamo nel mar Baltico, che è un teatro di guerra di profondità legata per connessione allo sfruttamento dei tesori marini liberati dai ghiacciai per il riscaldamento globale. Ma Finlandia e Lituania sono due prede costantemente nominate dal presidente russo Vladimir Putin nelle sue numerose apparizioni televisive in cui spiega in termini comprensibili a tutti la sua visione del mondo, almeno di quella che considera sua per diritto almeno storico.

Putin rivendica la legittimità degli atti di forza per riconquistare tutto ciò che fu russo, terra o acqua che sia e che abbia fatto parte – almeno dal XVII secolo – dell’impero della famiglia Romanov di Pietro il Grande e della crudelissima sua moglie Caterina. Resta aperta per lui la questione polacca: la Polonia non esisteva prima della fine della Grande Guerra, quando il Trattato di Versailles restituì l’indipendenza ai sudditi ex imperiali di lingua polacca.

La Polonia è avvertita e sa benissimo che quando Dmitry Medvedev (l’uomo con cui si è alternato alla presidenza russa) riafferma il diritto russo di riprendersi la Polonia, non scherza ma anzi parla da vero uomo del Cremlino. E poi i confini che Stalin ottenne di fatto alla Conferenza di Yalta, quando il dittatore sovietico discusse con il primo ministro inglese Winston Churchill e il presidente americano Franklin Roosevelt la spartizione dell’Europa per “sfere d’influenza”. Con la fine della Guerra Fredda tutte le potenze occidentali hanno rinunciato alle cosiddette “zone di influenza”, ma Putin ha iniziato a rivendicarle apertamente sostenendo che il “diritto storico” prevale su quello giuridico e che quindi tutti i confini dell’ex Unione Sovietica sono provvisori fintanto che il governo russo non si dichiarerà soddisfatto. Ma il governo russo, e cioè lo stesso Vladimir Putin, non ci pensa nemmeno a dichiararsi appagato. Ed ecco che il Cremlino tira fuori un argomento che non ha a che fare in alcun modo con le leggi internazionali, cioè non ufficiali ma che valgono tanto quanto le contemporanee esercitazioni nucleari al confine con l’Ucraina.

Il Cremlino sostiene che i confini delle acque territoriali sono troppo “datati”, cioè fuori moda, vecchiotti, sono passati tanti anni ed è ora di rivederli. Ovviamente una tale opinione è priva di qualsiasi sostegno giuridico e si fonda sul rapporto di forza, come faceva con spudorato candore Josef Stalin: “Avete detto che il Papa non è d’accordo? Ma quante divisioni ha questo Papa?”. Putin è un realista e un freddo giocatore. Sa che il successo ottenuto in Ucraina dall’esercito russo non è definitivo: le sue armi sono enormemente migliorate grazie all’aiuto della tecnologia cinese, ma mancano gli uomini e l’idea di una nuova leva dopo aver esaurito detenuti e mercenari, fa a pugni con l’opinione delle grandi aree metropolitane di Mosca e San Pietroburgo.

Ma l’arrivo massiccio delle tanto attese munizioni americane e la ritrovata fiducia dei comandanti ucraini sono elementi che giocano a favore di uno stop nell’avanzata russa verso nel Donetsk e verso Kharkiv. L’opinione pubblica russa è in maggioranza soddisfatta dell’economia di guerra che ha permesso un cospicuo aumento dei salari nell’industria militare. Ma la bolla non è stabile e Gazprom, la più grande azienda di Stato russa, si è trovata con le casse vuote senza poter onorare i guadagni dei suoi azionisti. Questo è stato l’ultimo dei gravi segni di stress dell’economia russa. Putin è impegnato in un’opera di propaganda, necessaria per tenere insieme lo scollato tessuto sociale della Russia bianca, ignorando peraltro quella asiatica che fornisce la maggioranza dei giovani soldati da mandare nel tritacarne ucraino. E così Putin giova incessantemente la carta dei confini, delle appropriazioni illegittime, dribblando lo scontro con l’Occidente e in attesa delle elezioni americane del 4 novembre.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.