L'intervista
La strategia del Kissinger inverso, Carlo Pelanda: “Una teoria da non escludere. L’Europa? Ha bisogno di un ombrello, almeno per il nucleare”

«Con una strategia chiamata “Kissinger inverso”, possiamo ipotizzare uno scenario in cui gli Stati Uniti cercano di allontanare la Russia dalla Cina. Si tratta di un’ipotesi, ovviamente, che ha una sua logica». Carlo Pelanda, economista e politologo (Università Guglielmo Marconi di Roma), specializzato in studi strategici, è da sempre attento alle dinamiche del capitalismo. Anni fa aveva studiato la fattibilità di una “grande alleanza” tra Usa, Ue, Russia, India e Giappone. «Quel modello non è più valido. Tuttavia, c’è una scuola di pensiero che ha definito un’operazione in senso opposto a quella condotta da Kissinger negli anni Settanta del secolo scorso, che aprì il dialogo con la Cina di Mao per depotenziare l’Unione sovietica. Mentre ora sarebbe vantaggioso staccare la Russia dalla Cina per ridurne l’aggressività».
Professore, Stati Uniti, Europa e Russia da una parte. Cina dall’altra. Da questa eventualità, Putin avrebbe tutto da guadagnare. Per lui vorrebbe dire tornare a sedersi ai tavoli della comunità internazionale dopo tre anni di guerra. Si può fare?
«Non credo abbia molta probabilità di riuscita. Tuttavia, ricordiamoci sempre che l’obiettivo dell’Amministrazione Trump è di declassare la Cina da potenza globale a potenza regionale. Questo è possibile accerchiandola. In questa operazione manca solo la Russia. In uno scenario ipotetico quindi, non possiamo escludere una mossa tanto azzardata».
Perché non è possibile? Forse perché Trump non ha il fiuto strategico che era invece di Kissinger?
«No. Bisogna essere corretti: nonostante quello che si dice, l’America dispone ancora di una burocrazia imperiale con un bagaglio intellettuale importante. I molti ostacoli che questo scenario dovrebbe superare sono più da parte Russia che da parte di Washington. Diciamo quindi, che è una teoria improbabile ma non escludibile».
Cosa verrà fuori dalla Conferenza sulla sicurezza le cui anticipazioni sono state tutt’altro che rassicuranti?
«Ne uscirà un momento tranquillizzante, ma anche sfidante per gli europei. Con Monaco, si ha la conferma che gli Stati Uniti non vogliono abbandonare la Nato. Perché senza di noi, non avrebbero la scala di potenza globale. L’Amministrazione Trump sta lavorando perché gli Usa si consolidino con la dimensione di un impero Nordamericano-Artico, che poi si proietta nel Sud America. Però, per essere potenza globale, bisogna avere parecchi punti di forza. Pensiamo all’India, con cui Washington ha firmato un nuovo accordo impostato su difesa ed energia. Nonostante non sia facile parlare con Delhi. Ma senza l’Europa mancherebbe la chiave di volta».
Però questo non emerge. Anzi. Gli ultimi giorni sono stati segnati da scambi verbali decisamente conflittuali.
«Gli europei stessi sono consapevoli di questo disegno. Il punto debole sta nella calibratura del linguaggio, da cui è difficile estrarre quel messaggio sostanziale per cui gli europei possono stare tranquilli».
Però, lei ha detto che per l’Europa c’è anche una sfida.
«Sì. E sono i costi. Gli Stati Uniti di fatto ci vendono un servizio di sicurezza e vogliono farsi pagare. Questo è il nodo che Trump è deciso a risolvere».
Ma noi non riusciamo a difenderci da soli?
«Cosa intendiamo quando si parla di “noi”?».
Noi Europa…
«Ma non esiste un “noi Europa”! Sul piano tecnico, l’Europa ha bisogno di un ombrello, almeno per quanto riguarda il nucleare. Tuttavia, se anche volessimo assumere una posizione di forza autonoma, re-incorporando in qualche modo anche il Regno Unito, avremmo bisogno di almeno 15-20 anni per dotarci di quegli strumenti necessari per difendere questa autonomia acquisita».
Quindi gli ostacoli sono costi, tempo e unità.
«Ci sono almeno tre Europe».
Quali sono?
«Quella mediterranea non può rinunciare agli Stati Uniti. Italia e Grecia per prime. Ma anche la Spagna e, per certi versi, la Francia. Poi c’è l’Europea orientale, che sicuramente non può vivere senza gli Usa. Tuttavia, non è contenta della vittoria di Trump. Ed è per questo che tende ad affidarsi al Regno Unito».
E la terza Europa?
«È quella franco-tedesca. In questo momento indecifrabile, composta com’è da una Berlino debole sia politicamente sia economicamente, e dalla Francia di Macron le cui ambizioni non trovano seguito nel resto del continente».
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