La scorsa settimana l’economia europea è stata segnata dalle sorprendenti dimissioni di Jens Weidmann, 53 anni, presidente della Bundesbank dal 2011. I quotidiani italiani ne hanno parlato poco, forse sottovalutando il fatto che Weidmann, alla guida della Banca centrale tedesca per dieci anni, è stato uno dei più duri avversari di Mario Draghi, nel suo periodo di presidenza della Bce.

Nel 2012, per esempio, rivolto al settimanale Spiegel, Weidmann stronca il piano salvaeuro – suggerito da Draghi e imperniato sugli acquisti di bond dei Paesi in difficoltà – con queste parole: «La Bce deve guardarsene bene, perché è come finanziare gli Stati con una stampatrice di banconote: può creare dipendenza come una droga». Stesso trattamento per un altro pilastro della politica dell’ex presidente della Banca centrale europea, il tetto antispread: «Non è compito della Bce garantire la permanenza di un Paese nell’Eurozona a qualunque costo. Fissare i tassi di inflazione per i titoli di Stato è per me un’idea scabrosa. E non credo di essere il solo ad avere mal di pancia al riguardo». Weidmann, almeno su una cosa, aveva ragione: non era da solo.

Fu la cancelliera Angela Merkel – della quale era stato consigliere economico prima di essere designato al vertice della “BuBa” – a dargli man forte: «È un bene che Jens Weidmann metta in guardia i politici. Lo appoggio. E credo sia un bene che lui, come capo della Bundesbank, abbia influenza nella Bce». Era l’anno della crisi greca, con il rischio di default del paese mediterraneo, chiamato a un piano di austerità da lacrime e sangue, sotto la presa degli artigli dei falchi europei. Tra questi, Jens Weidmann. Nel 2016, di fronte alla crisi bancaria ed economica, Draghi definisce “molto interessante” l’idea dell’helicopeter money: se le banche sono paralizzate e sono bloccati i canali tradizionali attraverso cui la moneta passa alle tasche dei cittadini, non resta che “gettare denaro dall’elicottero” per stimolare la domanda e la crescita in Europa. La reazione di Jens Weidmann è immediata: «è un’idea che deve tornare nel cassetto delle ipotesi accademiche». È per queste posizioni che in passato Mario Draghi ha liquidato Weidmann con l’espressione Nein zu allem, che in tedesco significa “No a tutto”. Quell’anno, il dibattito in Germania è così acceso che il ministero delle Finanze tedesco non esclude l’ipotesi di una battaglia legale e costituzionale contro la Bce per chiarire i limiti del suo mandato.

Tuttavia, nel 2019, quando Draghi giunge a scadenza del suo mandato, è lo stesso Weidmann a riabilitarlo, probabilmente ispirato dal proposito di sostituirlo sullo scranno di Francoforte. «La Corte di giustizia europea ha esaminato il quantitative easing e ha determinato che è legale. Aggiungo anzi che fa parte a pieno titolo dell’attuale politica monetaria», dichiara Weidmann al quotidiano tedesco Die Zeit. Alla guida della Bce va poi Christine Lagarde: il falco Weidmann sarebbe stato davvero troppo. Il Covid-19 fa il resto: di fronte alla crisi sanitaria ed economica, Weidmann arriva al punto di accettare la recente revisione strategica della Bce che ha consentito un temporaneo superamento dell’inflazione al di sopra dell’obiettivo del 2%. Grazie a questa grande sfida tra la politica monetaria europea e il rigorismo tedesco, incarnati da Draghi e Weidmann, l’Europa ha finalmente sfatato due tabù. Il primo è lo strapotere della Bundesbank sulle pratiche della Bce, costruita a immagine della sua omologa tedesca e, non a caso, basata a Francoforte.

Il secondo è il paradigma delle banche centrali come istituzioni conservatrici, votate ad alzare e abbassare i tassi d’interesse in maniera quasi meccanica. Con la ‘politicizzazione’ avviata da Draghi, quel modello – sostenuto dalla Bundesbank – è andato definitivamente in crisi. E con esso sembra quasi archiviata una stagione della politica europea. Potrebbe essere questo il movente delle dimissioni di Weidmann? Non possiamo dirlo con certezza perché la lettera di addio rivolta ai dipendenti della “BuBa” non approfondisce il punto. Tuttavia è legittimo sospettarlo, anche perché Weidmann getta clamorosamente la spugna nemmeno due anni dopo che il suo mandato è stato esteso per altri otto anni. Pur auspicando che la Bce continui a rispettare il suo “stretto mandato”, nella lettera Weidmann riconosce infatti che «la crisi finanziaria, la crisi del debito sovrano e adesso la pandemia hanno portato a decisioni in politica e nella politica monetaria che avranno effetti duraturi». È probabile, a questo punto, che il suo successore sarà scelto tra le “colombe”, modificando pure la maggioranza del consiglio direttivo della Bce.

L’addio del capo della Bundesbank arriva in un momento di passaggio cruciale. Sia per Berlino, dove sono in corso le trattative per un nuovo governo che molto probabilmente farà fuori la Cdu, sia per Francoforte, che si prepara a scadenze cruciali: entro dicembre, infatti, la Bce dovrà decidere se e quanto ridurre l’enorme pacchetto di stimoli contro la pandemia. Weidmann ha recentemente avvertito che la Bce corre il rischio di sottovalutare le pressioni inflazionistiche, rafforzate dall’aumento dei costi dell’energia (con il conseguente aumento delle bollette energetiche in tutta Europa) e dal collo di bottiglia nelle catene di approvvigionamento (le portacontainer sono rallentate o bloccate nei porti di tutto il mondo, provocando l’aumento vertiginoso dei costi di trasporto).

A partire da novembre, l’innalzamento del limite – oggi al 10% – sugli acquisti di obbligazioni emesse dall’Ue da parte della Bce è sempre più probabile. La mossa rafforzerebbe il programma di debito comune lanciato dall’Ue con il Ngeu. Queste operazioni ridurrebbero i costi di finanziamento dell’Ue e rafforzerebbero lo status delle obbligazioni dell’Unione a dispetto dei Bund tedeschi. Ecco perché l’addio di Jens Weidmann potrebbe essere il segno di un passaggio storico.

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