Ora facciamo le riforme
Piano Next Generation, l’Ue scommette sull’Italia: investiamo su giustizia e infrastrutture
Il piano NextGenerationEu (Ngeu), di cui il Recovery Fund rappresenta oltre il 90%, è una doppia scommessa da parte delle due nazioni leader dell’Unione, la Germania e la Francia. È una scommessa sull’Europa e la sua capacità di rimanere coesa di fronte a quell’innovazione straordinaria che è l’introduzione di un debito comune, malgrado la riluttanza di sempre dei nordici e, più di recente e per ragioni diverse, i veti di Polonia, Ungheria e Slovenia. Ed è una scommessa sull’Italia che con questi fondi viene aiutata a rimarginare le ferite della pandemia facendo le riforme, in particolare della pubblica amministrazione e della giustizia, che sono ritenute necessarie per farla uscire dalla condizione di stagnazione economica e alto debito in cui versa da un quarto di secolo.
La scommessa sull’Europa consiste nel fatto che si consente all’Unione di avere un proprio debito sovrano, per un ammontare di 750 miliardi che rappresentano il 5 per cento del Pil dell’Unione europea. Si tratta di una cifra piccola se confrontata con il debito di qualunque Stato sovrano unitario, ma che non ha precedenti nella storia dell’Ue. Nei patti, questo debito ha carattere eccezionale e dovrà essere interamente ripagato entro il 2058. Ma è lecito intravedere in questa iniziativa un primo passo verso un vero bilancio federale dell’Unione. Questi 750 miliardi sono i veri e propri “eurobonds” prefigurati tanti anni fa da Romano Prodi. Ma questo termine ancora oggi è un tabù per Paesi del nord ed è bandito dal lessico della diplomazia comunitaria. Si può forse dire che le parole rimangono tabù, ma i fatti precedono le parole. Il Ngeu rappresenta poi una grande scommessa sull’Italia.
Lo è innanzitutto sotto il profilo quantitativo: sul totale di 750 miliardi all’Italia andrebbero 208 miliardi, ossia il 28 per cento, mentre il Pil dell’Italia è il 13 per cento del Pil dell’Unione. Anche sulla sola componente dei grants del Recovery Fund (313 miliardi) l’Italia pesa per il 20 per cento, ossia oltre 64 miliardi. È stato detto che alla fine dei conti saranno pur sempre i cittadini europei, e pro quota, quelli italiani a pagare il conto dei grants; chi ragiona in questo modo, conclude che il beneficio netto è solo il 7 per cento (20-13) del totale dei grants. Questo modo di ragionare non tiene conto del fatto che l’Ue è impegnata a trovare fonti proprie di finanziamento che dovrebbero pesare poco sui cittadini, come una carbon border tax o una web tax. Né tiene conto del fatto, di gran lunga il più importante, che i grants non appesantiscono i bilanci nazionali; il debito è solo dell’Unione e non degli Stati membri. Questo fa una notevole differenza per i mercati e le agenzie di rating. Venendo al merito della questione, sembra essersi fatta strada l’idea che il problema del debito dell’Italia dipende oggi soprattutto dalla mancata crescita. Negli anni Settanta e Ottanta abbiamo accumulato il debito per via di una politica di bilancio poco assennata.
Ma nei decenni successivi, soprattutto a partire dalla metà degli anni Novanta, il debito non si è ridotto, salvo per brevi periodi, e anzi è aumentato, soprattutto per via della bassa crescita. Ciò non significa che la Commissione europea non continui a chiederci, come ha fatto pochi giorni fa il commissario Gentiloni, di mettere in atto politiche di bilancio prudenti per il post pandemia. Significa però che la Commissione prende atto del fatto che il rientro dal debito che l’Italia avrà accumulato al termine della pandemia – certamente non meno del 160% del Pil – sarà molto difficile se non si riuscirà a rimettere in moto la crescita. I numeri della stagnazione – o forse è meglio dire del declino italiano – sono impressionanti e si direbbe che a Bruxelles e a Berlino ne siano più consapevoli che a Roma. Fatto 100 il pil pro capite del 1995, l’Italia (ante Coronavirus) sta a 108,5 ed è quindi cresciuta meno di qualunque altra nazione avanzata; meno della Grecia (che sta a 119), meno del Giappone che fino a poco tempo fa era considerato il malato del mondo. L’eurozona, compresa l’Italia, si colloca a 127, la Francia a 130, la Germania a 136, la Spagna a 140, il Regno Unito a 143. Peggio dell’Italia hanno fatto solo pochi paesi al mondo, devastati da guerre, pandemie, catastrofi naturali.
Noi siamo stati devastati – è il caso di usare questo termine – da una pubblica amministrazione e una giustizia sommamente inefficienti. E abbiamo seri problemi nell’istruzione – a cominciare dalla dispersione scolastica – e nelle infrastrutture che hanno sofferto della caduta di un terzo degli investimenti pubblici dalla crisi del 2008. Questi sono i problemi che la Commissione europea ci invita ad affrontare nelle cosiddette “Raccomandazioni specifiche per i paesi” e che, in quanto tali, devono essere i pilastri che, assieme ai due obiettivi europei della transizione energetica e di quella digitale, ci guidano nell’allocazione dei fondi che riceveremo dall’Europa.
È ovviamente nostro interesse fare le riforme che ci vengono indicate per risolvere problemi atavici. È anche interesse degli altri Paesi europei che noi li risolviamo perché altrimenti va in crisi l’Italia e con essa l’intera Eurozona. Inoltre, tenendo conto degli acquisti della Bce, le istituzioni europee detengono più del 20% del debito pubblico italiano. Con il Ngeu, l’esposizione dell’Europa verso l’Italia è destinata a crescere e ad assumere una valenza più politica. I creditori hanno un interesse diretto che il debitore abbia successo. Il debitore ha un’occasione unica, ma per coglierla sa di dover fare uno sforzo straordinario. Si deve sperare che ci riesca, facendo un uso molto più efficiente che nel passato dei fondi europei,
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