Sono le misure che il governo assume contro la recrudescenza della pandemia (la scorsa settimana sono stati emanati ben due Dpcm) a condizionare l’economia del Paese oppure sono queste stesse misure a caratterizzarsi come vere e proprie scelte di politica economica? La domanda può sembrare stravagante. Non c’è dubbio tuttavia che talvolta il governo si trovi più a suo agio (al di là del merito discutibile dei provvedimenti di restrizione) quando è chiamato a varare interventi di “ristoro” dei danni provocati dalla pandemia ai redditi delle persone e ai fatturati delle imprese, piuttosto che a immaginare politiche per lo sviluppo e l’occupazione. Per inciso: in vista della legge di bilancio la quota più importante dei 39 miliardi previsti nella manovra 2021 sono in disavanzo, mentre 15 miliardi sono a carico di anticipazioni del Recovery fund di cui non esiste alcuna certezza, soprattutto a fronte delle difficoltà politiche riemerse nell’Unione nel chiudere l’accordo sul pacchetto di risorse del Next Generations Eu, da cui l’Italia si aspetta tra prestiti e trasferimenti a fondo perduto ben 209 miliardi.

L’ammontare complessivo del “Piano Marshall europeo”, inoltre, deve entrare a far parte del bilancio pluriennale dell’Unione, l’approvazione del quale resta tuttora nel vago; poi verrà la fase della “via crucis” dei Parlamenti nazionali. Intanto il Piano – osannato da mesi come un nuovo Avvento – sta perdendo dei pezzi. La pandemia è un fantasma assassino che si aggira per l’Europa e che mette sotto pressione i sistemi sanitari, ma nessun governo di un Paese di una qualche importanza intende aderire al Mes, i cui stanziamenti sono, per ora e da mesi, i soli disponibili. Nelle ultime ore si è aperto un altro fronte anche sul Recovery fund: i governi di Spagna e Portogallo hanno dichiarato che, per quanto li riguarda, sono interessati solo ai finanziamenti a fondo perduto, perché, per quanto riguarda i prestiti, ritengono più conveniente avvalersi del proprio debito sovrano che ha tassi di interessi più bassi di quelli invero simbolici di conio europeo. Si tratta – come è facile capire – di un gioco delle tre carte, essendo gli acquisti di titoli da parte della Bce a calmierare i mercati finanziari e a mantenere contenuti, persino negativi, gli spread.

La situazione del nostro Paese è diversa perché, per quanto ridotti, i tassi dei titoli di Stato sono più elevati di quelli dei prestiti di cui al Piano di Bruxelles. Quali sarebbero le conseguenze del nuovo e inatteso colpo di scena se anche altri Paesi pretendessero di incassare soltanto le risorse di cui non sarà chiesta la restituzione? Gli Stati che – come quello italiano – non fossero in grado di far quadrare i conti con le sole risorse a fondo perduto si tirerebbero addosso quello ‘’stigma’’ strumentalmente temuto dagli avversari della sottoscrizione del Mes. L’Italia, in particolare, diventerebbe l’unico grande Paese disponibile ad accollarsi l’onere dei prestiti, mettendo allo scoperto il suo “tallone d’Achille” sui mercati. Ovviamente la nostra è soltanto un’ipotesi perché se diversi governi pretendessero di cavarsela senza assumere impegni e condizionalità, è molto probabile che i cosiddetti Paesi frugali e la stessa Germania non sarebbero disposti a chiedere sacrifici ai propri cittadini per essere solidali con partner latino-mediterranei i quali, alla fin dei conti, non intendono pagare dazio e attuare quelle riforme che servirebbero a instradare i loro sinistrati conti pubblici su binari stabili e a risanare un’economia debole e anemica.

Dove conduce, allora, questo ragionamento? A chiudere bottega con il Recovery fund e a rilanciare in tutto il Continente le forze sovranpopuliste ora in ritirata. Basta osservare come le affermazioni di Conte sul Mes, in conferenza stampa (ma attenzione: il ministro Gualtieri non dice cose differenti) hanno ringalluzzito il duo canoro Salvini-Meloni (con tanto di coro e orchestra). Ma c’è di più. Prendiamo, per tutti, un caso emblematico. Era facilmente prevedibile che, assumendo il governo con eccessiva disinvoltura la strada del blocco dei licenziamenti individuali e collettivi di carattere economico, sarebbe stato difficile tornare indietro, perché i sindacati non avrebbero gradito la mossa (anche se sono andati perduti 700mila posti di lavoro tra assunzioni mancate e contratti temporanei o precari non rinnovati).

E quando il ministro Patuanelli ha dichiarato che il blocco era insostenibile e che doveva essere superato entro la fine dell’anno, i sindacati sono insorti all’unisono, giudicando tale prospettiva assolutamente inaccettabile. La soluzione che sembra profilarsi è quella di proseguire (per almeno 9 settimane?) nel finanziamento della cassa integrazione straordinaria mantenendo il regime di blocco per le aziende che ne fanno richiesta. Per quanto sia difficile individuare una soluzione corretta ad un problema tanto complesso e delicato, quella che viene riproposta assomiglia a un barile di tritolo piazzato sotto il sistema produttivo e dei servizi. Non ha senso mantenere a carico delle imprese (ancorché a carico degli ammortizzatori sociali) sacche di lavoratori che fanno riferimento a posti di lavoro ormai inesistenti o soppressi, come se si trattasse di superare un tempo indefinito, trascorso il quale tutto tornerà come prima.

Questa linea di condotta costringe le imprese a lavorare con una palla al piede, impedisce la loro ristrutturazione e il relativo adeguamento degli organici, crea difficoltà agli investimenti in nuova tecnologia mettendo a rischio le condizioni di competitività. Il governo persegue la linea – definita da Alessandro Barbano – del “paternalismo autoritario” perché non è in grado di fare diversamente. In politica non fa differenza tra volere e potere. Nel nostro Paese è presente una tentazione trasversale che si lusinga di poter disporre delle ingenti risorse del Next Generation Eu per tirare a campare di bonus, sussidi, erogazioni sostitutive di redditi e di fatturati. Che questa suggestione covi sotto la cenere lo si vede anche in questi giorni, nei nuovi Dpcm.

Che cosa chiedono i titolari di ristoranti, di bar, di locali pubblici, penalizzati dal coprifuoco? A loro basterebbe poter lavorare, garantendo condizioni di sicurezza. Ma il governo preferisce ridurne l’attività in cambio di “ristori”, di rinvio delle cartelle fiscali (nonostante l’assist che Papa Francesco ha dato, domenica, all’Agenzia delle Entrate), di scuole a rischio di lockdown e di promozioni garantite, di estensione del lavoro da remoto in una pubblica amministrazione che, di suo, fa i conti con il pallottoliere ed usa i pc come macchine da scrivere per copiare i testi dei dirigenti che usano ancora la stilografica. La regola generale è sempre il “primum vivere”. Poi domani è un altro giorno.