“Si potrebbe andare insieme a Palazzo Chigi/ a negoziare i progetti del Recovery Fund/ poi mandare tutto quanto a Bruxelles/ per vedere in Commissione l’effetto che fa/ Vengo anch’io? No tu no’’. La cosa è troppo seria per scherzarci sopra. Come ha scritto, a commento dell’incontro del 7 settembre, Dario Di Vico su Il Corriere della Sera: «Su tutte queste materie (rinnovi contrattuali, criteri della rappresentanza, gestione delle crisi aziendali, riforma degli ammortizzatori sociali, priorità di investimento del Recovery Fund, ndr) manca, non solo una posizione comune delle parti sociali, ma persino un lavoro preliminare tra gli sherpa». «Con il risultato – ha proseguito Di Vico – che anche in questo caso la scena è stata lasciata totalmente agli show di Conte e alle invenzioni di politica sociale dei vari Catalfo, Tridico e Parisi».

Ricordiamo tutti la passerella degli Stati Generali. La Confindustria si presentò consegnando ai presenti un libro, nel quale erano contenuti dei pregevoli saggi commissionati a economisti che spiegavano quali misure sarebbero state necessarie, mentre il parere della Associazione imprenditoriale più importante del Paese era contenuta nella prefazione del neo presidente Carlo Bonomi. I sindacati furono più concreti: a loro interessava, nella logica del primum vivere, la proroga della cassa integrazione e del blocco dei licenziamenti. Poi, quando è ripreso il confronto con il governo (in questo caso con il ministro del Lavoro Nunzia Catalfo) la prima preoccupazione di Cgil, Cisl e Uil è stata quella di mettere all’ordine del giorno l’affaire delle pensioni (l’appuntamento dell’8 settembre è slittato al giorno 16). Sull’esito del vertice con la Confindustria, non si hanno circostanziate notizie, ad eccezione di quanto traspare dalle dichiarazioni dei leader sindacali a conclusione dell’incontro.

«Ci sono notizie positive, ma ci sono temi su cui restano delle difficoltà», ha affermato il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini. «Ci aspettiamo che si apra una fase di rinnovo dei contratti nazionali – ha aggiunto il sindacalista- e ribadiamo che su questo tema abbiamo avanzato la richiesta al Governo che sia possibile sperimentare una tassazione migliore per l’aumento dei contratti nazionali». Anche questo è un segno dei tempi: il bonus fiscale esiste da anni, ma è sempre stato riservato alla contrattazione di prossimità in cambio di una migliore produttività e qualità del lavoro. La differenza tra questa prassi (in via di dismissione) e quella rivendicata ora da Landini c’è e si vede. Con l’ingenuità del neofita Pierpaolo Bombardieri, che si è lasciato scappare affermazioni che chiariscono la vera posizione dei sindacati. «Vorremmo parlare di innovazione, ricerca, produttività – ha ammesso il neo segretario della Uil – ma fino a quando non si sottoscrivono i contratti, è difficile procedere su questi temi».

Ovviamente il rinnovo dei contratti alle loro scadenze è un diritto dei lavoratori e il contratto nazionale è un riferimento essenziale per le piccole imprese, come sa bene la stessa Confindustria che le rappresenta. Ma quale deve essere la funzione dei contratti di categoria? Ovvero: come si ripartiscono gli oneri tra i diversi livelli di contrattazione? E dove si determina quel più elevato livello di produttività, ritenuto da tutti necessario per superare uno degli handicap più seri del nostro apparato produttivo? Una maggiore produttività garantirebbe migliori standard di competitività sui mercati internazionali. È una sfida che non riguarda soltanto il capitale umano, ma anche gli investimenti, l’innovazione tecnologica, l’organizzazione del lavoro, della produzione e del prodotto. Il luogo in cui avviene questo scambio è l’impresa. È normale che un datore di lavoro preferisca impiegare le proprie risorse per migliorare la retribuzione, la qualificazione (attraverso la formazione) e la qualità della vita (tramite le iniziative del welfare aziendale) dei propri dipendenti.

Del resto questa è stata l’impostazione che le parti sociali hanno adottato fin dai tempi del Protocollo del 1993, razionalizzando i ruoli e le funzioni della contrattazione collettiva: al contratto nazionale il compito primario della difesa del potere d’acquisto delle retribuzioni; alla contrattazione decentrata (in azienda o nel territorio) “le erogazioni strettamente correlate ai risultati conseguiti nella realizzazione di programmi, concordati tra le parti, avendo come obiettivo incrementi di produttività, di qualità e altri elementi di competitività di cui le imprese dispongano, compresi i margini di produttività”, in base anche “ai risultati legati all’andamento economico dell’impresa”.

È questo l’assetto che ha regolato le relazioni industriali, seppure con difficoltà e dissensi, riguardanti soprattutto i criteri da assumere per salvaguardare le retribuzioni dall’inflazione. Ed è questo l’assetto che Carlo Bonomi ha voluto confermare nella lettera inviata a fine agosto a tutte le strutture associate e che avrà certamente sostenuto nell’incontro del 7 settembre. Secondo il presidente di viale dell’Astronomia sono parte «fondante dei nuovi contratti di lavoro le nuove politiche del lavoro, la quota di finanziamento a carico delle imprese per la formazione e l’outplacement, l’adozione di nuove metriche per la produttività, l’innalzamento della qualità del capitale umano impiegato, uno spazio crescente per forme di welfare aziendale e di conciliazione tra lavoro e cure parentali, l’adozione su vasta scala dello smart working, laddove tecnologia e modalità lo consentano sempre più ampiamente, riscrivendo i vecchi mansionari dell’epoca fordista».

Ma, al di là dei rinnovi contrattuali, esiste tra Confindustria e sindacati un dissenso, per ora non componibile, sulla politica che porta avanti il governo in materia di lavoro. La scelta operata dal Governo di estendere gli ammortizzatori e vietare per legge i licenziamenti, poteva essere giustificata – secondo Bonomi – in relazione con la severità delle misure di lockdown. «Ma protrarla a oltranza è un errore molto rischioso» per lui. Secondo l’ultimo aggiornamento INPS – ha spiegato il presidente – hanno avuto accesso alla cig/Covid-oltre 5,5 milioni di italiani; se a questi si sommano tutti coloro che beneficiano dei diversi regimi di sostegno diretto pubblico, la quota di italiani sotto l’ombrello della protezione statale ha oltrepassato il numero di 8 milioni di cittadini. «Per noi imprese – è la conclusione del ragionamento di Bonomi – restare ancorati all’idea della cig – cioè tentare di congelare il lavoro dov’era e com’era – è in molti casi un errore profondo, poiché ritarda le riorganizzazioni aziendali, i nuovi investimenti e le nuove assunzioni che pur sono necessarie e a cui dobbiamo pensare. Per alcune, poi, questa “anestesia” potrebbe significare, al “risveglio”, l’avvio di procedure concorsuali. Più si protrae nel tempo il binomio “cig per tutti/no ai licenziamenti” più gli effetti di questo congelamento potrebbero essere pesanti, in termini sociali e per le imprese».

Lo dimostra il fatto che – nonostante il blocco dei licenziamenti e un modesto rimbalzo dell’occupazione – da febbraio a luglio sono venuti a mancare 500mila posti di lavoro. E non è un mistero che si tratti, in maggioranza, di lavori discontinui, a termine e precari. Perché questi argomenti – portati al tavolo del confronto con i sindacati – appaiono divisivi? Semplice. Carlo Bonomi critica le scelte che il governo ha compiuto su sollecitazione dei sindacati. E quindi – se esiste anche in politica – una proprietà transitiva, la Confindustria è contraria a ciò che Cgil, Cisl e Uil rivendicano con forza – come scrive Di Vico – privilegiando l’idea di poter ottenere di più dall’azione di governo che dal dialogo sociale.

Tutti hanno condiviso le considerazioni di Mario Draghi al Meeting di Rimini: «I sussidi servono a sopravvivere, a ripartire – ha detto l’ex presidente della Bce – ma ai giovani bisogna dare di più perché i sussidi finiranno e se la spesa a debito non sarà servita a formarli professionalmente, a creare nuove opportunità, saranno loro a essere le vittime sacrificali». E i sindacati come rispondono a questo autorevole invito? Sono fermamente impegnati, nel negoziato col governo sulla previdenza, a garantire ai giovani una pensione per quando saranno anziani.