Leggendo con l’attenzione che merita il Rapporto 2020 di coordinamento della finanza pubblica della Corte dei Conti ci si accorge che un esame condotto nel 2018 aveva stimato che, per cominciare a dare risposta al fabbisogno per l’edilizia sanitaria su tutto il territorio nazionale sarebbero occorsi circa 32 miliardi. Nel 2018, per di più, nessuno aveva previsto il cataclisma della pandemia. Chi legge questo brano nota sicuramente una certa assonanza tra l’ammontare stimato allora e quello che sarebbe stato possibile incassare aderendo al Mes (è bene precisare “sanitario”, perché dopo le dichiarazioni di David Sassoli si è ingenerata una certa confusione con il Mes Salva Stati, quel fondo la cui riforma fu negoziata dal governo giallo-verde, ad insaputa (sic!) dei due caporioni allora vice di Conte prima versione).

Eppure da noi, poco per volta, sta prevalendo che quel pacchetto di miliardi non serve, perché – grazie alle risorse che arriveranno dal Recovery Fund – pioverà la manna dal cielo, “sarà due volte Natale (da trascorrere da soli in casa, ndr) e festa tutto l’anno”. Anzi, saremo tanto ricchi da permetterci – per mia nonna era il massimo dello spreco – di far indossare ai cani lunghi guinzagli di salsiccia. Certo, in Europa ci facciamo sempre riconoscere per non riuscire a spendere le risorse che ci vengono erogate. Si prenda il caso dei Fondi strutturali: dal 2014 al 2020 quelli spettanti all’Italia hanno avuto un valore di 72,4 miliardi. Nel giugno scorso erano stati utilizzati in misura del 40%. Su 3,7 miliardi per la digitalizzazione solo del 15%. Se si fanno delle banali proporzioni viene il dubbio che l’azienda Italia non saprebbe che farne dei 209 miliardi che verranno (se si superano difficoltà recentemente insorte – e da non sottovalutare – ad Est del Continente) dal “Piano Marshall” europeo.

Sarà per questi motivi che, nei palazzi del potere, non circola neppure una velina per quello che si chiama Recovery plan ovvero il complesso dei programmi da presentare a Bruxelles per ottenere i finanziamenti. Perché quelle ingenti risorse – in un arco pluriennale – non sono un regalo natalizio, ma costituiscono un insieme di prestiti mirati per conseguire obiettivi condivisi nei loro contenuti ed incardinati nei disegni di riforme strutturali e di trasformazione del modello di sviluppo. Del resto, non c’è tempo. Il governo è impegnato a varare dpcm per stabilire quante volte, e dove, è possibile portare a passeggio il cane, a cercare un commissario per la sanità della Calabria e a varare un disegno di legge di bilancio 2021 che viene ritenuta insufficiente dalle opposizioni, anche quelle più disponibili, perché ritenuta superata a seguito del “ritorno di fiamma” del Covid.

Al solito il governo, nello stesso tempo, ha fatto troppo e troppo poco. In primo luogo si sono scritti i titoli delle misure da adottare; poi si è spartito il (ancora virtuale) bottino, a colpi di miliardi presi in prestito dal Monopoli di uno scolaretto scelto dal ministro Azzolina; e infine si è dato libero corso all’immaginazione di un popolo di poeti. Pare che dai ministeri siano arrivati quasi seicento progetti a vasto raggio: dalla protezione della ginestra, al bonus per l’acquisto di trenini elettrici (che – dicono – essere invenduti a centinaia di migliaia) fino alla coltivazione dell’autarchico karkadè (per boicottare il tè inglese in polemica con la Brexit).

Attenzione a non sbagliare analisi, però. Non si tratta solo di sciatteria, ma di un raffinato calcolo politico; anzi di una meditata linea di politica economica che prende le mosse dall’emergenza virus. Anche questa volta il covid ha fatto politica, hanno funzionato il bastone delle chiusure di colore cangiante e la carota dei “ristori” ( ormai è questo il concetto chiave della neoeconomia italiana). Sono bastati alcuni giorni per passare alla rivendicazione di più consistenti ristori dalla protesta – anche violenta – per la messa in quarantena di attività economiche che non avevano alcuna responsabilità (o almeno non era dimostrata) nell’impennata della curva dei contagi e che, dopo il lockdown di primavera, avevano sostenuto, in proprio, gli oneri della messa in sicurezza secondo le disposizioni di legge (anzi di dpcm).

Siamo partiti dal “fateci lavorare” per arrivare in breve, e comprensibilmente, al “tengo famiglia anch’io”. Pur con tutte le tensioni aspre che attraversano la società, il Paese vive – come afferma una canzone del grande Lucio Battisti – una “sensazione di leggera follia”: finalmente è consentito spendere quanto è necessario, senza preoccuparsi dei vincoli di bilancio. Se le risorse in deficit non bastano, se si devono finanziare altre settimane di cig-Covid (e continuare a bloccare i licenziamenti) oltre le originarie previsioni, c’è sempre la possibilità di chiedere e ottenere dal Parlamento un altro scostamento di bilancio. Ormai ci sta anche l’opposizione, che non si accontenta di una legge di bilancio da 38 miliardi; ne chiede una da 100. Caso mai il problema non riguarda l’an, ma il quantum e il quomodo.

Come si fa a non capire che non ha prospettive una situazione in cui lo Stato si candida a garantire non solo i redditi, ma anche i ricavi? Che la cig a zero ore non è un posto di lavoro? Che di un negozio chiuso non è assicurata la riapertura se l’Agenzia delle Entrate fa pervenire un bonus sul conto corrente del titolare? Certo, è indispensabile il “primum vivere”. Ma noi sappiamo anche che nessun pasto è gratis. E sappiamo anche chi pagherà per i nostri pasti in regime di “ristoro”. «La riduzione delle posizioni lavorative – è scritto nella Nota del 19 ottobre della Banca d’Italia – durante il periodo di lockdown ha inciso in misura rilevante soprattutto sull’occupazione femminile riflettendo in buona parte, anche in questo caso, l’andamento particolarmente negativo del settore turistico e di quello dei servizi alla persona, dove le donne rappresentano in media i tre quinti degli addetti.

Nel periodo successivo – prosegue la ricerca – alla rimozione dei vincoli, la domanda di lavoro nel settore è tornata a crescere, in misura maggiore per la componente femminile. Nel complesso delle regioni considerate, il saldo netto complessivo resta però ancora negativo di oltre 43 posizioni in meno ogni mille dipendenti per le donne e di 26 per gli uomini, rispetto all’anno prima. L’emergenza sanitaria (ovvero gli effetti economici, ndr) ha colpito in misura più intensa i giovani in tutte le regioni. Tale dinamica è da ricondurre oltre che alla loro rilevante presenza nei settori maggiormente coinvolti dalla crisi, anche all’ampia diffusione dei contratti a termine nella fascia di età tra i 15 e i 24 anni. In tutte le regioni considerate il saldo resta ampiamente negativo per i giovani; il calo registrato nella classe d’età più matura durante il periodo di chiusura – conclude la Nota – è stato, invece, quasi interamente riassorbito nei mesi successivi».