Romania, Polonia, Portogallo tra nazionalismi e europeismi
Le elezioni in Europa e la lezione per i riformisti: parlare dei problemi senza aggrapparsi all’aiuto giudiziario

Illudersi che per i riformisti sia cambiato il vento è troppo. Con il voto di domenica in Romania e Polonia, c’è stato un sospiro di sollievo. Questo sì. Diverso è il caso portoghese. La vittoria dell’europeista Dan alle presidenziali rumene, contro il sovranista filo-russo Simion, pone fine a una campagna elettorale macchiata dall’annullamento del voto a novembre, quando si erano sospettate ingerenze russe.
Putin fuori dai seggi in Romania…
Questa volta, in Romania, Mosca è rimasta fuori dai seggi. Comprensibile quindi il commento del portavoce del Cremlino Peskov, che ha definito il risultato «quantomeno strano». Sebbene l’Ocse abbia descritto la corsa al voto rumena viziata dalla diffamazione e a rischio di episodi di violenza, a far da protagonisti sono stati la contrapposizione nazionalismo-europeismo, le riforme economiche e la difesa. L’ha spuntata una linea pro Europea, perché Bruxelles resta il male minore. Soprattutto rispetto all’orso russo, che lasciato nel Paese un ricordo indelebile fin dal tempo dell’Urss. Pur restando il secondo stato membro più povero dell’Ue, dopo la Bulgaria, e sebbene i suoi abitanti siano spesso vittime di discriminazioni e qualunquismi, la Romania è la dimostrazione che l’allargamento funziona. I fondi strutturali arrivano a destinazione. Il territorio attrae investimenti. Il sistema giudiziario è in fase di riforma.
La sfida aperta in Polonia tra europeismo e nazionalismo
In Polonia, a sua volta, la partita non è conclusa. Il primo turno delle presidenziali ha promosso al ballottaggio del 1° giugno il sindaco di Varsavia Trzaskowski, candidato di Piattaforma Civica, il partito del premier Tusk, contro Nawrocki, sostenuto dai conservatori del Pis. Partito che sarebbe approssimativo classificare come euro scettico tout-court. Nel Paese, il timore del vicino russo è sempre acceso. Da qui la sovraesposizione di Tusk sul palco della politica internazionale. Anche in concorrenza con Giorgia Meloni. D’altra parte, la Polonia ha la presidenza semestrale di turno dell’Unione, con scadenza a fine giugno e condivide con l’Ucraina oltre 500 chilometri di frontiera. Questa linea di confine con un Paese in guerra, porosa in termini di traffico di merci e profughi, è stata oggetto di una campagna elettorale accesa e anch’essa condizionata dal dilemma Ue, sì/no.
La continuità portoghese
Più netto infine, il quadro portoghese. Lì il voto ha visto la messa alle corde del centro-sinistra. Luis Montenegro si è confermato alla guida del Paese, con la sua coalizione di centro-destra, Alleanza Democratica, con il 32% dei voti. Ma tallonata dall’estrema destra di Chega (22,56%). Il Portogallo passa così dal tradizionale bipolarismo a un assetto proporzionale. Per ovvi motivi geografici, è meno esposto alle questioni di politica internazionale che tengono in apprensione l’Unione. Mentre le previsioni economiche sono ottimistiche. Questo può aver influito l’elettorato nel compiere scelte di continuità e non di protesta.
I riformisti e l’aiuto da casa
L’elemento positivo del voto di domenica infatti è che i problemi sono stati oggetto di campagna elettorale. È questa la linea su cui i riformisti in Europa devono insistere. Senza aggrapparsi all’“aiuto da casa”, di un potere giudiziario – vedi in Francia e potenzialmente in Germania – che, espellendo dall’agorà le forze nazional-populiste, concede loro spazio di manovra, in termini di vittimismo e consenso. Ovvio, non è l’inizio della fine. In Polonia ci sarà il ballottaggio. Più in generale, la destra radicale è forte ovunque in Europa. Incide poi il vuoto pneumatico del mondo progressista. Il voto così condotto, però, fa pensare che i meccanismi democratici abbiano ancora qualcosa da dire. Almeno a casa nostra.
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