C’era un tempo la Germania, quella di cui ti potevi fidare. Dalle auto al welfare, dal diritto al pil fino al calcio. E c’era la Germania politica, paradigma dell’equilibrio e del senso dello Stato, capace di prosperare nell’alternanza e arrivare unita poi a demolire il Muro e avviare l’unificazione. Questo grande paese sembrava essersi riproposto nel piglio ambizioso e persino nobile di Friedrich Merz, che un minuto dopo le elezioni sembrava dover diventare leader effettivo, insieme all’inglese Starmer, di un’Europa che si risveglia da sé stessa.

Oggi Merz parte con il freno a mano tirato. È diventato cancelliere dopo una delle giornate politicamente più buie del dopoguerra. La realtà rivelata dal Bundestag è una sola: i partiti tradizionali fanno troppi proclami e poca politica. Il problema non è la Germania, non è la Romania, non è nemmeno l’estrema destra.

Il problema è il riflesso pavloviano delle élite europee di risolvere i problemi con l’espellere, sanzionare, dichiarare illegale chi è fuori dal tuo perimetro. Anche perché nel recinto dei partiti ci sono lotte di potere, rivalità, intese col nemico, Merz è stato il primo cancelliere impallinato al voto di fiducia della storia tedesca. L’ultimo, forse, a credere che si possa governare il disagio senza capirlo, riviverlo, rappresentarlo.

In questo scenario, la stabilità italiana diventa un felice paradosso. Dopo un trentennio passato ad aggirare il responso delle urne “per salvare il Paese”, lo abbiamo messo in sicurezza nel modo più semplice: mandando al governo chi è stato votato. Da noi, gli amici di AFD, Georgescu e Orban sono nella stanza dei bottoni. Dicono la loro, come è giusto che sia, senza produrre danni eccessivi. Il caso Italia dovrebbe far scuola: la democrazia è anche rischio, e la gente si è stancata di votare chi non decide e far decidere chi non vota.