L'editoriale
Le intemperanze di Trump innescano la rincorsa fra media “tradizionali” e “social” (ma la posta in gioco è ancora più alta)
Dall’election day a oggi, buona parte dei tweet e dei retweet di Donald Trump sono stati “etichettati” dallo stesso social network come portatori d’informazioni in realtà disputed, contestate, sul processo elettorale. Seguendo il link inserito dal social, è possibile ottenere maggiori informazioni da altre fonti. Già nei mesi precedenti, nel contesto di un suo maggiore attivismo per contenere la diffusione di notizie false, Twitter aveva reso noto che avrebbe avuto un atteggiamento ben diverso da quello del passato anche a fronte dell’appuntamento elettorale e del suo seguito.
Tra le linee guida del social, infatti, nella sezione “Norme per l’integrità civica” (aggiornata per l’appunto a ottobre 2020) si legge che «Non puoi utilizzare i servizi di Twitter per manipolare le elezioni o altri processi civici, né per interferirvi. Ciò include la pubblicazione o la condivisione di contenuti che possono inibire la partecipazione o fuorviare le persone in merito a quando, dove o come partecipare a un processo civico». A questo fine, Twitter si riserva di «etichettare e rendere meno visibili i tweet che contengono informazioni false o ingannevoli sui processi civici al fine di fornire maggiore contesto».
Anche Facebook sta progressivamente abbandonando la politica di mero “megafono” a favore di flag – “bandierine” di avvertimento – e intere rimozioni di post; l’impostazione di tale ultimo social comprende peraltro, al momento, un radicale ad ban nei termini di non concedere spazi a pagamento di contenuto politico, che – ed è significativo – pochi giorni fa è stato ulteriormente esteso a fronte del rifiuto di Trump di ammettere la sconfitta. Si tratta di sviluppi di grande interesse, dato che più volte lo stesso Trump ha sottolineato, in questi anni, l’importanza dei social per veicolare direttamente il suo messaggio senza passare dai media tradizionali, asseritamente corrotti e a lui ostili.
Lasciando qui in disparte le implicazioni attuali e potenziali sul dibattito pubblico (oggi “bollati” i comportamenti sciagurati e pericolosi di Trump e seguaci, ma domani?), oltre all’incerta efficacia di tali strumenti per la qualità del dibattito, si sottolinea un altro, curioso effetto immediato.
A fronte dell’inedito attivismo dei social network, in questi giorni hanno rischiato di risultare veicoli perfetti della zizzania trumpiana proprio i “classici” canali televisivi, tramite la stessa trasmissione dei suoi interventi. Ha quindi fatto (giustamente) notizia la decisione reiterata di diversi canali (tra i quali MSNBC, Abc e Cbs) d’interrompere interventi presidenziali o di chiosarli (in particolare CNN) con dei “sottopancia” eloquenti, al limite dello sfottò. Una rincorsa tra piattaforme profondamente diverse, innescata da comportamenti irresponsabili di un Presidente (ancora) in carica che però – è il caso di ricordarlo – ha costruito la sua notorietà anche tramite programmi televisivi, e la sua carriera politica in buona parte tramite i social network.
È ancora presto per capire quale sia la morale della favola, ma di certo è uno stimolo in più a ripensare (e sfumare) i confini concettuali tra media “tradizionali” e “social”, nella speranza che ciò porti ad un contesto regolatorio più avanzato; del resto, sullo sfondo delle dispute (anche) di questi giorni si staglia la prospettiva, avanzata da più parti, di una riforma della parte del Telecommunications Act del 1996 che – in tutt’altro contesto tecnologico e storico – ha garantito ai provider di servizi su Internet l’immunità per i contenuti di terze parti da essi veicolati. Com’è evidente, la posta in gioco è altissima, nell’immediato e in futuro.
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