I risultati delle elezioni Usa
Ci siamo liberati di Trump ma il trumpismo continua…
Joe Biden è il 46° presidente degli Stati Uniti. Ci sono voluti alcuni giorni per consolidare un esito che era sembrato subito possibile, anche se nelle prime ore dello spoglio dei voti – quando la distanza tra i candidati, soprattutto nell’ambito dei grandi elettori era molto ristretta – si è temuto di assistere a un ripetersi del colpo di scena del 2016. Quella imponente chiazza rossa al centro della cartina degli States appariva come la minaccia di un inatteso e imprevisto colpo di scena. Ad ascoltare le opinioni dei nostri più richiesti commentatori che rimbalzavano da un talk show a un altro o rilasciavano ovunque approfondite interviste, il tratto dominante era la sorpresa per la “tenuta” di Donald Trump, tanto da riconoscere che la sua elezione quattro anni or sono, non era stata affatto un incidente, ma l’esito di un processo profondo della società americana, destinato a durare anche nel caso di sconfitta del “bullo usurpatore”.
A testimonianza di quest’orientamento basta citare le considerazioni di Massimo D’Alema – una delle poche menti lucide che restano alla sinistra in Italia – in occasione di una intervista su Huffington Post: «Trump non è stato una parentesi transitoria. Rappresenta un elemento di crisi rispetto alla tradizione democratica americana: ha detto prima del voto che non avrebbe accettato il verdetto, e questo non è normale. Ma è un fenomeno destinato a rimanere: il populismo nazionalista, etnocentrico, basato sul ruolo della razza bianca, attraversa tutto il mondo occidentale». Negli Usa se ne erano accorti subito. Nel libro Fascismo. Un avvertimento Madeleine Albright, già segretario di Stato di Bill Clinton, accusava Trump di mentire agli elettori attraverso argomentazioni “pensate per fare leva sulla insicurezza e suscitare indignazione”.
Albrigth, a questo proposito, citava un brano di un discorso del Donald in Pennsylvania, nell’aprile del 2017: «Da decenni il nostro paese vive il più grande saccheggio di posti di lavoro nella storia del mondo. Voi qui in Pennsylvania lo sapete meglio di chiunque altro. Le nostre industrie sono state sprangate, le nostre acciaierie sono state chiuse e i nostri posti di lavoro ci sono stati sottratti per essere trasferiti in altri paesi, alcuni dei quali mai sentiti prima. I politici hanno spedito le nostre truppe a difendere i confini di nazioni straniere, ma hanno lasciato quelli americani liberi di essere violati (non sembra di sentire Matteo Salvini? ndr). Abbiamo destinato miliardi su miliardi di dollari a un progetto globale dopo l’altro, ma quando orde di criminali hanno invaso il nostro paese non siamo stati in grado di garantire la sicurezza alla nostra gente. I nostri governi si sono precipitati a sottoscrivere accordi internazionali che prevedono che gli Stati Uniti paghino i costi e si accollino gli oneri, mentre gli altri paesi si prendono tutti i benefici senza sborsare un soldo».
Subito dopo, Albrigth chiarisce che nello Stato in questione la disoccupazione, in verità, era scesa al di sotto del 5% rispetto all’8% di alcuni anni prima. Nel Paese, più di 200mila posti di lavoro dipendevano dalle esportazioni dirette in Canada, Messico e Cina; dal 2009 al 2016 l’inflazione si era mantenuta bassa, il tasso di disoccupazione si era più che dimezzato ed erano stati creati 12 milioni di posti di lavoro. Ma ormai – lamentava l’ex segretario di Stato – viviamo nell’era delle percezioni che fanno aggio sui dati della realtà, che non solo non è conosciuta da un’opinione pubblica sobillata dal web, ma che non viene neppure cercata, anche se è portata di mano. Trump non è stato una macchietta con la banana arancione. In verità avremmo dovuto capirlo anche noi, italiani ed europei, dal momento che il virus di un “comune sentire” populista ha attraversato quello stesso Oceano sul quale in altri tempi transitavano ideali di libertà e di democrazia portati con le armi di milioni di soldati che vennero per ben due volte a combattere (e a morire) per la salvezza del Vecchio Continente.
Di fronte all’esito finale del voto quanti si attardano a stupirsi della capacità di tenuta di Trump somigliano fin troppo a coloro che si meravigliano di svegliarsi al mattino uguali a come si erano coricati la sera precedente. È invece assai discutibile l’atteggiamento di quanti, davanti alla vittoria del ticket democratico, si comportano come il liberto che sussurra all’orecchio del condottiero in trionfo “Ricordati che devi morire”. Si tratta di valutazioni – a mio avviso – affrettate e sbagliate, quasi scaramantiche.
Per diversi motivi: a) Joe Biden ha vinto nettamente sia nel voto popolare, sia in quello degli Stati, con margini più ampi di quelli di altri presidenti al primo mandato (ricordiamo per brevità i casi di John Kennedy e di George Bush jr.); b) il candidato democratico ha battuto, con un ammontare di voti popolari mai riscontrati in precedenti consultazioni, un presidente in carica, cosa che non è avvenuta di frequente, quanto meno nel secondo dopoguerra (tranne il caso di Gerald Ford che era subentrato al dimissionario Richard Nixon, di Jimmy Carter e di Bush senior.); c) Joe Biden era comunque un candidato debole, anziano, con una lunga carriera politica incolore, con l’aria di un vecchio zio piuttosto che di un leader carismatico; d) la scelta di una vice presidente di notevole spessore (ancora da dimostrare nel nuovo ruolo) come Kamala Harris è stata troppo tardiva per poter esprimere in pieno il suo potenziale nella conquista del consenso delle minoranze.
Tornando a Biden, era troppo evidente che il partito democratico lo aveva messo in campo per disperazione, più che per convinzione. Era la sola figura in grado di tenere unito il partito e di difenderlo da una devastante deriva radicale e parasocialista che rischiava di rinchiuderlo in perimetro di minoranze estremiste, allontanando l’elettorato moderato. I democratici sono riusciti ad evitare l’effetto Corbyn e le aberrazioni del metoo, del culture correct, della decapitazione delle statue, dei mea culpa dell’uomo bianco, del gender, del Black lives matter: i nuovi “mostri” pericolosi e devastanti al pari dei tanti “ismi” che si porta appresso il populismo. A pensarci bene, il debole profilo politico di Biden, la sua appartenenza all’establishment contribuiscono a rendere più netta la sconfitta di Trump, nel senso che gli americani hanno preferito eleggere, magari senza troppo entusiasmo, un presidente che – per tanti comprensibili motivi – ha già dato un preavviso di indisponibilità per un secondo mandato.
Quale è stata la carta vincente giocata dai dem? Nell’economia? Trump non aveva agito male. In politica estera? Trump poteva vantare dei risultati importanti, soprattutto nel Medio Oriente. Nella cattiva gestione della emergenza Covid? Non avrebbe preso più di 70 milioni di voti. Lo scontro è avvenuto sui valori della democrazia e della società aperta: contro quei vizi sempre presenti in diverse fasi della storia Usa, come l’isolazionismo, il protezionismo, la rinuncia alla leadership del mondo libero, l’ostilità verso l’Europa, il Continente dove le varie comunità degli americani vantano le proprie radici.
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