La nuova rotta del Movimento
L’ennesima capriola di Conte, dopo aver sconfitto la povertà adesso il ceto medio diventa l’ultimo asso nella manica
Giuseppe Conte ha spiegato alla kermesse di Atreju di FdI che il suo neomovimento pacifista e progressista non sarà un “junior partner” del Pd, ma una forza responsabile, organizzata e ragionevole, espressione di quel ceto medio che paga le tasse e che porta ogni giorno sulle spalle il peso della collettività. Sconfitta la povertà, quindi, l’ex avvocato del popolo (e di clienti facoltosi) intende riposizionarsi al centro della società italiana, identificato appunto nel ceto medio.
Verso la metà degli anni Settanta del secolo scorso, la questione del ceto medio diventò centrale nel dibattito pubblico dopo la pubblicazione del celebre “Saggio sulle classi sociali” di Paolo Sylos Labini (1974). Il grande economista, mettendo in discussione un mantra della vulgata marxista, mostrava il peso crescente dei ceti medi (al plurale), soprattutto della piccola borghesia del settore agricolo, dell’artigianato e del commercio (i famigerati “topi nel formaggio”). E, pur riconoscendone l’importanza, lo attribuiva soprattutto alle politiche clientelari messe in campo dalla Dc.
Oggi la questione si ripropone in termini diversi. Perché, come ha osservato uno dei più eminenti studiosi del fenomeno, Arnaldo Bagnasco, il presunto declino del ceto medio – del suo status come dei suoi livelli di reddito – non si presta a facili semplificazioni giornalistiche. L’attenzione, infatti, andrebbe rivolta più sull’allargamento della forbice tra il suo strato superiore e quello inferiore, ovvero sulle inedite disuguaglianze sociali create da questa divaricazione. Tendenza analizzata per primo da Charles Wright Mills nella sua monumentale ricerca sui colletti bianchi del 1951. In realtà, una classe media non è mai esistita. Infatti, la classe media è un’insalata mista di occupazioni, una nebulosa che comprende lavoratori indipendenti (come artigiani, piccoli e medi imprenditori) e dipendenti (come gli impiegati pubblici e privati). Quando ci si vuol riferire a un insieme che supera e comprende tali diversità, entra allora in gioco il termine ceto, che indica una vicinanza di tratti culturali, stili di vita, modelli di consumo, effetto anche di scelte politiche.
Ora, guardando ai dati sulla mobilità intergenerazionale nel nostro paese, lo scenario resta sconfortante: nascere in una famiglia borghese significa avere la certezza di restare borghesi, mentre nascere in una famiglia operaia favorisce la permanenza negli strati sociali più bassi. Ciononostante, i fatti ci invitano a non cadere nel trabocchetto che colloca l’impoverimento relativo del ceto medio in scenari da Terzo mondo. Ma ci invitano anche a non snobbare i rischi di nuove drammatiche fratture nel mondo del lavoro. Sempre i fatti, ad esempio, ci dicono che il lavoro servile svolto dalle donne immigrate ha premesso alle donne italiane di emanciparsi, almeno parzialmente, senza però mutare l’assetto tradizionale della famiglia e del welfare. E ci dicono che i mestieri manuali meno qualificati si stanno sempre più etnicizzando, soprattutto al Nord. Si delinea così una situazione in cui i gradini inferiori della scala sociale sono quasi segregati su base etnica. Purtroppo, è un problema che alla destra xenofoba interessa nulla, alla sinistra inclusiva poco.
© Riproduzione riservata