Chi in Italia e in Europa ha il potere e il dovere di agire per porre fine alle stragi di innocenti che si susseguono nel Mediterraneo, non può limitarsi a esprimere dolore e costernazione di fronte a tragedie come quella che ha portato alla morte del piccolo Joseph. Le lacrime non bastano. Non servono a salvare la vita dei più indifesi tra gli indifesi. È il messaggio che attraverso Il Riformista lancia padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli.

Come spesso accade quando a morire in mare è un bimbo, e questa morte è filmata, fotografata o, come nel caso del piccolo Joseph, accompagnata dal grido di dolore della madre, tutti si dicono affranti, costernati, ripetono “mai più”. E poi si ricomincia come se nulla fosse. Non è un comportamento umanamente, eticamente, prim’ancora che politicamente, inaccettabile?
In generale, sì. Il problema è che si rimane scossi di fronte a queste immagini ma poi alla fine non si riesce ad arrivare a un cambiamento reale, che è quello che noi ogni volta cerchiamo di non dimenticare, di far sì che quando qualcuno muore non muoia nell’indifferenza. L’obiettivo è quello di fare assumere una responsabilità, che è poi collettiva, perché se anche l’opinione pubblica rimane scossa dall’immagine ma poi non contribuisce a un vero cambiamento, anche quello ha la sua parte della responsabilità. Ogni volta cerchiamo di sottolineare queste morti, di fare questo conteggio per fare in modo che l’opinione pubblica non proceda a un’assuefazione di fronte alla questione delle morti in mare. E poi ogni volta diventa l’occasione per richiamare ad altri livelli di responsabilità, la necessità di modalità sicure per arrivare in Europa e l’importanza del soccorso in mare.

Proprio su quest’ultima considerazione, la morte del piccolo Joseph solleva più di un interrogativo ancora senza risposte sulle politiche migratorie dell’Unione europea e sull’assenza di un sistema comune europeo di soccorsi.
Il “Patto sulle Migrazioni” presentato dalla presidente della Commissione europea, anche su questo punto non è particolarmente illuminante rispetto alle politiche dei soccorsi in mare. Bisognerebbe che l’Unione europea si assuma la responsabilità di un soccorso in mare, e non soltanto di controllare il traffico di esseri umani o il traffico di armi, con varie operazioni susseguitesi nel tempo, senza peraltro grandi risultati. Il tema importante è che bisogna presidiare il Mediterraneo per evitare che queste tragedie si consumino ormai quotidianamente. È storia di anni.

Come è possibile provare a salvare vite umane in mare aperto, se alla nostra Marina militare è impedito di spingersi fuori dalle acque territoriali italiane? Di cosa si ha paura?
Ci sono varie questioni: una è legata al fatto che se guardiamo alle politiche dell’Unione europea come alle politiche dei singoli Stati membri negli ultimi anni, la preoccupazione fondamentale è stata quella di difendere i confini piuttosto che mettersi dalla parte di chi fugge da persecuzioni, da guerre, o fugge dall’instabilità libica e quindi si mette in mare. La preoccupazione dell’Unione europea è stata quella di difendere i propri confini. Il punto di vista è sempre quello di una Unione europea che gioca in difesa, mai per difendere veramente i diritti delle persone che si mettono in mare a tutti i costi per arrivare in Europa. Se non si cambia questa prospettiva, difficilmente si riescono a fare delle politiche pro attive di aiuto delle persone e del rispetto dei loro diritti, oltre al fatto che si teme che facendo una politica di salvataggio in mare, ma questo è stato smentito da diversi studi, si abbia un effetto di pull factor, per cui tu più salvi in mare e più le persone tendono a partire. Si è visto, però, che negli ultimi anni non c’è apparentemente quest’effetto di spingere le persone se tu le salvi in mare, anzi la via del Mediterraneo centrale è una delle più pericolose perché, pur riducendosi i numeri, aumenta il tasso di mortalità di quelli che si mettono in viaggio. Il numero delle vittime è aumentato negli ultimi anni pur essendo diminuito in valore assoluto il numero delle persone che partivano.

Quello che colpisce di più è quando a morire sono i più indifesi tra gli indifesi: i bambini. Neonati, come era Joseph. L’Unicef Italia lancia un appello accorato: «Oggi sempre di più ribadiamo la necessità di garantire il diritto alla protezione e alla vita di ogni bambina o bambino senza alcuna distinzione e in qualunque luogo essi si trovino». Padre Ripamonti, perché questi appelli non ricevono mai una risposta fattiva?
Io credo che ci sia il timore da parte della classe politica, di destra come di sinistra, di affrontare queste tematiche che rischiano poi di far perdere il consenso. C’è questo timore di fondo. Ma se il timore, per l’appunto, è che l’opinione pubblica non ti paghi con i voti, forse c’è anche un problema nell’opinione pubblica. Occorre farsi un esame di coscienza come singoli cittadini su quale tipo di mondo vogliamo, se un mondo nel quale vengono tutelati i tuoi interessi piuttosto che i diritti delle persone, in questo caso i diritti dei bambini. Tra l’altro noi abbiamo in Italia una legge sui minori non accompagnati molto ben fatta, in cui si sottolinea l’importanza del maggior bene dei bambini, e in questo caso, il maggior bene dei bambini sarebbe salvarli in mare e fargli trovare un approdo sicuro in cui possano avere un futuro e una vita migliore. Per quanto riguarda i minori, ci sarebbero anche gli strumenti legislativi, però se da un lato l’opinione pubblica non fa un vero e proprio esame di coscienza di che tipo di mondo vuole, e dall’altro lato la classe politica ha timore di scontentare l’opinione pubblica e gli elettori, le cose sono destinate a non cambiare. Finché non c’è un cambio di cultura, un cambio di mentalità e un mea culpa su questa situazione che stiamo vivendo, non si arriverà a un cambio decisivo.

L’Europa e l’Italia continuano ad avere come unica, vera finalità, quella di presidiare le frontiere esterne, anche se questo vuol dire finanziare autocrati come Erdogan o la cosiddetta Guardia costiera libica. Ma la strada giusta non sarebbe quella dei corridoi umanitari legali?
Assolutamente sì. Come Centro Astalli lo sosteniamo da tanto tempo. Una risposta importante sarebbe quella dei corridoi umanitari. Tra l’altro, da sempre l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr, ndr) fa un’azione di resettlement, e cioè di spostamento delle persone dai paesi terzi ai paesi occidentali. Da sempre ci sarebbe questa modalità, che andrebbe rafforzata ma che da sola non basterebbe neanche. Bisognerebbe investire nei paesi da cui partono queste persone, perché ci sia veramente un cambio strutturale che renda dignitosa la loro vita, per garantire anche un diritto a non migrare per coloro che non fuggono da guerre e persecuzioni ma dalla miseria e dall’ingiustizia. E poi c’è tutta la componente dell’accoglienza, un’accoglienza volta all’integrazione. Per cui la soluzione del problema consta di diversi aspetti: gli investimenti attraverso la cooperazione allo sviluppo, l’investimento sulle vie sicure, i corridoi umanitari piuttosto che il resettlement dell’Unhcr, e l’accoglienza dignitosa per l’integrazione, perché poi se non si accoglie in un modo dignitoso, si crea marginalità, e la marginalità crea o alimenta il rancore delle periferie urbane fino ad assistere negli ultimi anni anche al fenomeno del terrorismo. Quanto poi a Erdogan e alla Guardia costiera libica, il nostro punto di vista è chiaro e netto: la soluzione di riportare o utilizzare la Libia come frontiera esterna dell’Europa, così come la Turchia per i siriani, non è rispettosa dei diritti delle persone. Con tante altre associazioni chiediamo da tempo di procedere all’evacuazione dei centri di detenzione libici ed elaborare percorsi alternativi e in sicurezza, come appunto i corridoi umanitari, per sottrarre le persone ai trafficanti.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.