Dall’Iraq alla Libia. Il 2020 nasce nel segno della “diplomazia di guerra”. E in questo scenario, le dichiarazioni improntate a “grande preoccupazione” o gli appelli, puntualmente inevasi, alla “moderazione” e alla “de-escalation” non sono il segno di sagacia ma d’impotenza. E la Libia è l’espressione di una impotenza che chiama in causa pesantemente l’Europa e, in essa, l’Italia.
Il Governo di accordo nazionale (Gna) libico ha chiesto a Bruxelles di non inviare la propria delegazione a Tripoli per trovare una mediazione politica alla crisi bellica in atto, azzerando di fatto lo sforzo europeo di reinserirsi nel dossier del Paese nordafricano dopo un’assenza di fatto durata oltre un anno. La missione capitanata dall’Alto rappresentante Ue, Josep Borrell, con protagonisti i ministri degli Esteri di Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia con Luigi Di Maio, sarebbe dovuta arrivare oggi nella capitale libica ma “questioni di sicurezza” ne rendono l’attuazione complicata, pericolosa. In realtà, spiegano fonti locali, dietro il rinvio c’è il disinteresse da parte del Gna di Fayez al-Sarraj di dare spazio a trattative diverse da quelle che hanno portato all’accordo tra Tripoli e Ankara con il conseguente supporto militare della Turchia alla Tripolitania.

Il ministro degli Esteri del governo di Tripoli, Mohamed Siala, ha confermato alla tv “Libya Al Ahrar” che il governo di accordo nazionale ha chiesto alla delegazione Ue un rinvio della missione a Tripoli. Bruxelles prova a salvare la faccia: «Noi non abbiamo annunciato nessuna missione» europea in Libia ma «sottolineiamo che anche su questo fronte l’Alto rappresentante Ue per la politica estera», Josep Borrell, «è molto coinvolto e in costante contatto con tutti i partner rilevanti e quello che è importante è raggiungere la soluzione politica». Così il portavoce Ue per gli Affari esteri, Peter Stano, parlando a Bruxelles. «L’escalation di violenza non porta nient’altro se non più sofferenza, più distruzione e più instabilità nella regione», ha concluso il portavoce. «L’Italia e l’Europa andassero prima da Haftar convincendolo al ritiro, prima di venire qui, altrimenti restassero a casa, non ci servono i parolai», tagliano corto con Il Riformista fonti autorevoli di Tripoli. Inutili i tentativi di recupero in extremis del ministro Di Maio che ieri ha tentato, inutilmente, di contattare al telefono Sarraj: da Tripoli nessuna risposta.

Nella partita libica, Roma rischia di essere relegata a bordo campo. I player sono altri e vanno ricercati a Mosca, ad Ankara, al Cairo, Riyadh, e se allarghiamo l’orizzonte alla polveriera mediorientale, a Washington e a Teheran. In un lungo post su Facebook, il titolare della Farnesina rilancia le ragioni del dialogo e ribadisce che non esistono scorciatoie militari per dare soluzione alla crisi libica: «Ora – dice – non è più il tempo di rischiare morte, terrorismo, ondate migratorie insostenibili, ora è il momento di scommettere sul dialogo, sulla diplomazia e sulle soluzioni politiche».  Una perorazione giusta in linea di principio ma che si scontra con la realtà. Una realtà di guerra per procura. L’esercito nazionale libico (Lna) del generale Khalifa Haftar ha preso il controllo di Sirte. Lo riferiscono fonti citate da Al Arabiya, secondo le quali le truppe fedeli al generale controllano venti accessi alla parte orientale di Sirte e il terzo distretto in ordine di grandezza della città, e hanno scacciato le milizie che sostengono l’esecutivo del premier al-Sarraj. «Le milizie del Governo di accordo si ritirano da Sirte. L’Esercito nazionale libico entra a Sirte», si legge in un tweet dell’emittente di sole notizie al Hadat del gruppo Al Arabiya che cita il proprio corrispondente. E dietro Haftar, ci sono l’Egitto, gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita e la Russia di Putin. Contro, la Turchia.

Il comandante della Backup Force dell’esercito di Tripoli, Nasir Ammar, ha detto ad al Jazeera che un gruppo di élite di soldati turchi «specializzati in radar jamming e difesa aerea sono arrivati a Tripoli». Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, aveva messo in guardia la Turchia (senza farne esplicita menzione) dall’invio di truppe in Libia: «Qualsiasi sostegno straniero alle parti in guerra» nel Paese, ha affermato, «non farà che aggravare il conflitto e complicare gli sforzi per una soluzione pacifica». La risposta del “Sultano” è l’annuncio della partenza delle operazioni. «Il compito dei nostri soldati è il coordinamento. Lì svilupperanno il centro operativo. I nostri soldati stanno gradualmente andando in questo momento», ha affermato Erdogan in una intervista alla Cnn turca, spiegando che l’invio di truppe in Libia serve a «rafforzare la posizione di quello che è un governo legittimo che ci ha chiesto di intervenire. La nostra non è una spedizione di legionari», ha detto Erdogan nell’intervista, prima di rivendicare i diritti della Turchia sul Mediterraneo orientale.

“Diritti” – leggi sfruttamento delle ricchezze di gas e petrolio, creazione di un “protettorato” ottomano in Tripolitania – che confliggono con gli interessi italiani. «Se si voleva un ruolo nella soluzione alla crisi libica – dice a Il Riformista il generale Vittorio Camporini, già Capo di Stato Maggiore della Difesa, tra i più autorevoli analisti di geopolitica e strategie militari – bisognava un’azione, possibilmente in coordinamento con gli altri Paesi europei. Non avendolo fatto si è lasciato un vuoto di cui Erdogan si è affrettato ad approfittare».

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.