Può sembrare noioso scrivere di un convegno internazionale, ma il convegno “Sulla rotta balcanica” promosso dalla rete nazionale “Rivolti ai Balcani” che oggi, 27 novembre, domani sabato 28 vedrà un confronto tra studiosi, attivisti per i diritti umani, giornalisti e politici di diversi Paesi europei, (i lavori si possono seguire sulla pagina Facebook della rete) non è uno dei tanti appuntamenti online che affollano la vita virtuale di molti di noi in questo periodo, bensì è un tentativo coraggioso di spezzare il silenzio che avvolge una delle vicende politiche più oscure della politica europea ed italiana, ovvero la gestione dei migranti lungo la rotta balcanica.

Se esaminiamo i dati di Eurostat sulle domande di asilo presentate nella Ue nel 2018 e nel 2019, vediamo che il 32,72% dei richiedenti proviene dall’Afghanistan, il 25,91% dal Pakistan, l’8,03% dalla Siria, il 6,56% dall’Iraq e infine il 4.61% dall’Iran. Si tratta delle medesime nazionalità che ritroviamo con assoluta prevalenza tra i migranti lungo la rotta balcanica, che si conferma essere dunque una ineludibile e prioritaria via di fuga dei richiedenti asilo che giungono in Europa da aree del mondo caratterizzate da persecuzioni e conflitti bellici pluridecennali. Cosa avviene dunque in questa area dell’Europa così importante, ma di cui spesso non ci accorgiamo? I flussi migratori in quest’area hanno una peculiarità perché i migranti entrano dalla Turchia nell’Unione europea (Grecia e Bulgaria) per poi uscire dall’Unione ed entrare in uno spazio geografico e politico frammentato e complesso, fatto di Paesi non appartenenti alla Ue (Macedonia del Nord, Kosovo, Serbia, Bosnia) per infine tentare di entrare nuovamente nell’Ue più a nord, in Croazia e Slovenia (del convitato di pietra, l’Ungheria, che ha sigillato i propri confini e oggi sfida l’Unione sul rispetto dello stato di diritto bisognerebbe parlare a lungo ma non lo posso fare ora per ragioni di spazio).

Ci si aspetterebbe una grande differenza, in termini di garanzie giuridiche di protezione dei diritti fondamentali e di sistemi di accoglienza, tra stati Ue e stati non-Ue dell’area, invece è vero proprio l’opposto: pesanti caratteristiche negative sono comuni a tutti i Paesi dell’area. Tanto in Grecia, come in altri luoghi della rotta, ha prevalso la scelta di non realizzare alcun reale programma di accoglienza dei rifugiati, bensì si è preferito creare un vasto sistema di grandi campi profughi estremamente degradati, spesso simili a vere e proprie discariche umane. Si tratta di una scelta non giustificata da alcun episodio di arrivi massicci e imprevedibili, ma che deriva da una pianificata strategia di creazione, sia nei Paesi Ue che non Ue, di “campi di confinamento” per i rifugiati. In tutti i Paesi dell’area, inoltre, non esiste di fatto alcun programma di inclusione sociale dei rifugiati e i pochi temerari che si azzardano a non andarsene il prima possibile, si vedono respingere quasi sempre le loro domande di asilo. In parallelo ogni sforzo è stato messo in campo per cercare di impedire o almeno rallentare il transito dei migranti (in gran parte di rifugiati) verso il resto dell’Europa.

Le operazioni di controllo dei confini, specie tra paesi UE e non UE, ignorando le complesse e garantiste norme che la stessa Unione si è formalmente data, hanno lo scopo di attuare dei respingimenti sistematici dei rifugiati, ricorrendo anche a metodi brutali. Molto preciso è il quadro ricostruito dall’organizzazione internazionale Danish Refugee Council ben presente nei campi per migranti in Bosnia-Erzegovina (uno dei Paesi più poveri ed instabili d’Europa nel quale abbiamo deciso di ammassare i rifugiati che non vogliamo) che stima in ben 21.422 i respingimenti di migranti attuati dagli altri Paesi dell’area verso la Bosnia nel solo periodo maggio 2019-ottobre 2020, con una tendenza netta all’aumento a partire da maggio 2020 (lo stesso mese nel quale, come si dirà più avanti, iniziano i respingimenti anche dall’Italia).

In particolare la situazione appare al di fuori di ogni orizzonte di legalità in Croazia, un paese dell’Ue: Amnesty International e molte altre realtà europee operanti sul campo, come Border Violence Monitoring Network (entrambe relazioneranno al convegno), almeno dal 2018 hanno evidenziato con circostanziate e inconfutabili prove documentali le brutalità e le violenze efferate e sistematiche compiute dalle forze di polizia croate verso i migranti. La polizia croata usa manganelli e bastoni, ma anche coltelli e armi da fuoco mentre molteplici sono i casi di tortura nelle stazioni di polizia della sperduta area confinaria tra Croazia e Bosnia (alcune di quelle vittime di tortura sono in cura in Italia).

Tra i molti gridi d’allarme inascoltati, nel giugno 2020, il relatore speciale delle Nazioni Unite Felipe Gonzales Morales (che interverrà al convegno) ricordava come «Il violento respingimento dei migranti senza passare attraverso alcuna procedura ufficiale, valutazione individuale o altre garanzie di giusto processo costituisce una violazione del divieto di espulsioni collettive e del principio di non respingimento». La domanda non è dunque se esistono o meno violenze sistematiche verso i migranti, bensì come sia possibile che un fenomeno di tale entità possa avere luogo dentro l’Unione Europea in forma così strutturata e duratura. La risposta non va evitata solo perché è terribile: la violenza verso i migranti in fuga non è affatto esito dell’azione di corpi di polizia deviati, bensì è frutto di una lucida scelta di conseguire con ogni mezzo, lecito e non, un contenimento della pressione migratoria verso la Ue.

Respingere le persone con modi duri non è dunque sufficiente, poiché si sa che, appena respinti, gli stessi migranti ritenteranno il viaggio. Derubarli, sottoporli a torture e a trattamenti disumani e degradanti diviene pertanto “necessario” affinché la manovra di alleggerimento (come in un’operazione militare) sia minimamente efficace ovvero affinché “The game” (termine usato per indicare i tentativi di attraversamento) sia almeno rallentato, mentre a coloro che si trovano più indietro nella stessa rotta giunga il messaggio feroce di non provarci (e ai trafficanti di alzare il prezzo dei loro servigi).

Tutto ciò avviene non in Libia né in luoghi nei quali riporre l’alto sdegno di noi europei democratici, bensì avviene a casa nostra, nel cuore dell’Europa. Non potendo rimuovere il problema in un “altrove” più o meno esotico, ecco che subentra quel silenzio totale e impalpabile che avvolge la rotta balcanica, ignorata da politica e opinion makers. Che ruolo sta giocando l’Italia in tutto questo? Dopo avere per anni rispettato il diritto internazionale ed europeo, a partire da maggio del corrente anno il Governo in carica (non quello del Salvini) ha deciso di entrare nell’oscuro gorgo balcanico dando vita sul confine terrestre del Friuli, e a Trieste in particolare, ad operazioni di respingimenti dei rifugiati che non hanno precedenti nella storia della Repubblica per quantità di persone respinte (oltre 1.300 persone tra gennaio e ottobre 2020) e per livello di rivendicazione ideologica delle prassi illegittime attuate.

I respingimenti, detti più dolcemente “riammissioni”, vengono giustificate invocando maldestramente l’applicazione dell’Accordo bilaterale fra Italia e Slovenia risalente al lontano 1996 (la Slovenia non era neppure parte dell’area Schengen) appunto sulla riammissione delle persone irregolari rintracciate nelle aree di frontiera. Fingendo di ignorare che, oltre ai molti dubbi giuridici sui limiti di applicazione di tale accordo, in ogni caso esso non può mai essere applicato ai richiedenti asilo, nella risposta all’interrogazione alla Camera presentata dall’on. Magi il Governo italiano, a fine luglio 2020, ha ammesso che le riammissioni riguardano anche i richiedenti asilo, i quali ovviamente non vengono restituiti alla Slovenia come tali ma, dopo avere ignorato la loro volontà di chiedere asilo, vi ritornano come semplici irregolari di cui liberarsi. Risulta che la ministra Lamorgese abbia cercato di negare che l’Italia respinge i richiedenti asilo al confine sloveno, ma ciò contrasta platealmente con quanto è stato ufficialmente dichiarato dal Governo stesso; se non è vero che l’Italia respinge i richiedenti asilo alla frontiera italo-sloveno, allora il Governo ritiri le dichiarazioni ufficiali fatte in Parlamento; diversamente sono quelle dichiarazioni e non altri balbettii a far fede.

Le riammissioni sono attuate in modo cosiddetto “informale” ovvero si tratta di mere azioni di polizia, senza l’adozione di alcun provvedimento motivato e notificato all’interessato al quale viene così impedito di esercitare il diritto di rivolgersi ad alcun tribunale affinché decida sulla legittimità di quella riammissione, avvenuta ma non documentata. Se si ritiene che la procedura di riammissione anche verso i richiedenti asilo sia legale, perché allora non emettere e notificare un provvedimento, come la pubblica amministrazione è sempre tenuta a fare anche in contesti di ben minor rilievo (mentre qui siamo nel campo dei diritti fondamentali)? Ebbene, i provvedimenti non si fanno per “prassi consolidata” ha risposto il Governo italiano.

La legge appare dunque un orpello, così come non conta più nulla il Regolamento Dublino III. Consegnati alla Slovenia i migranti vengono subito forzatamente tradotti nella vicina Croazia e da questo Paese, il terzo della UE coinvolto in questo meccanismo di respingimenti a catena, gli stranieri, come sgraditi rifiuti, vengono restituiti alla Bosnia con una variante particolarmente crudele; giunti nelle aree boschive in prossimità della frontiera vengono picchiati, derubati e costretti a passare “volontariamente” il limes dell’Unione in modo da sparire nel nulla, come se nella nostra Europa non ci fossero mai stati. Li rivedremo solo al prossimo giro di respingimenti e di violenze. Le istituzioni italiane sanno bene che sta accadendo tutto ciò ma, senza vergogna, hanno scelto di essere parte di questo meccanismo di respingimenti a catena dal quale dobbiamo uscire il prima possibile, ritornando a uno stato di diritto.