Liliana Segre ha l’età della mia mamma e la storia di mio padre. Nell’incommensurabile distanza che separa la nostra vita quotidiana dalla misura dell’umano che scaturisce dalle parole dei superstiti della Shoah, io ritrovo una fetta decisiva della mia vita, del mio modo di essere, di soffrire e di gioire. Liliana ha un tono di voce inarrivabile, fermo e denso. La sua voce, senza apparenti cadute, ci conduce ad una sofferenza muta, perpetua, quasi fosse ogni volta il brano di un racconto interrotto, che riprende allo stesso punto; ogni volta che l’ascoltiamo, la sua coscienza ci viene trasmessa senza infingimenti, senza costruzioni, piana.

Come il suo celebre camminare nel film Memoria nel corridoio di San Vittore, mentre ricorda quel tratto di cammino fatto da lei quasi bambina, mano nella mano con suo padre, avviandosi verso i camion che li avrebbero portati alla Stazione Centrale e di lì ai carri bestiame e di lì ad Auschwitz. Dove per suo padre era pronto il gas e per lei un periodo lunghissimo di sofferenza nella sopravvivenza. Come ieri, nella Cittadella della Pace a Rondine, dove ha impresso nella memoria di tutti, nella coscienza di tutti, quella pistola del soldato tedesco non raccolta, l’arma della possibile vendetta, la storia che cambia il suo giro, che non ha raccolto, per non farsi tentare, per non essere come loro, per sentirsi finalmente libera.

Una donna libera, certo, come mio padre, dopo che il primo soldato americano profumante di Lifebuoy era entrato nella sua baracca di Buchenwald. Mai liberi però dalla memoria. Da quel peso. Liliana ha fatto sapere che questa sarebbe stata la sua ultima testimonianza. Lo ha fatto donando come sempre parole e atmosfere il cui peso è una medicina, per un mondo povero, spesso, di maestri e di morale. Sapevamo che questo momento sarebbe arrivato, sapevamo che noi figli della Shoah, noi che non portiamo sulla pelle, ma nella mente, le cicatrici della tragedia dei nostri cari, avremmo ereditato il dovere di continuare a scavare nella natura dell’uomo per capire come sia stato possibile. E lo faremo. Sapevamo che un giorno loro sarebbero stati stanchi, o si sarebbero rinchiusi nel dolore non consolabile, o non avrebbero più potuto sopportare il peso di un pezzo cosi ingombrante della storia dell’umanità, sapevamo che quel giorno sarebbe arrivato. Come è giusto che sia.

La storia siamo noi, siamo noi adesso a dover raccontare, ognuno di noi che abbia capito, o studiato, o ascoltato. La memoria un giorno non sarà più il racconto, purtroppo, sarà la nostra capacità di condividere. Come ha scritto giustamente David Bidussa: «La memoria non è un accadimento, è un atto che si compie tra vivi ed è volto a legare tra loro individui al fine di costruire una coscienza pubblica». Questo ci attende, penso, mentre ascolto ancora una volta le parole dolcissime e dure del racconto di Liliana; costruire una comune coscienza pubblica in questo paese, e addirittura nella nostra civiltà, oppure le loro preziose parole saranno state inutili. E con esse anche noi.