A un po’ di distanza dalla data delle elezioni, in particolare dopo quella della Assemblée nationale, e dopo la presentazione del nuovo governo e la dichiarazione di politica generale del primo ministro Elisabeth Borne, è possibile fare ancora qualche osservazione sul quadro politico-partitico della Francia di oggi e, di conseguenza, sulla situazione costituzionale e istituzionale francese. In primo luogo, si deve sottolineare che il paese ha visto una crescita importante del sostegno elettorale nei confronti delle forze politiche estreme con posizioni sovraniste e con programmi economici che rischierebbero, se realizzati, di condurre lo stato francese alla bancarotta.

Le ragioni che sottostanno a questo fenomeno necessitano di una analisi seria e complessa, che certamente non può ridursi a dare colpa a Macron di questa evoluzione; si devono capire piuttosto le ragioni della riduzione drastica dei due partiti storici della 5a Repubblica, più significativa a oggi per quanto riguarda i socialisti, in forte declino già dal 2017, che per la destra liberale. Vi è stato in particolare uno spostamento a destra dell’elettorato francese che, insieme al profilo meno radicale del Rassemblement national, ha fatto crescere il partito guidato da Marine Le Pen. Si consideri peraltro che il mantenimento di 74 deputati della destra post-gollista (ne aveva in precedenza 101) all’Assemblée fa pensare che potrebbe essere più facile per il governo Borne giungere a compromessi e ad accordi con quest’ultima, piuttosto che con i due gruppi meno radicali a sinistra del centro, i socialisti e gli ecologisti.

I quali, indipendentemente dalla France insoumise, controllano 51 deputati: abbastanza, se restano insieme, per assicurare a loro volta una maggioranza parlamentare al governo. E nulla esclude che alcune leggi possano essere votate dal centro dello schieramento parlamentare con il coinvolgimento della sinistra più ragionevole, in particolare su temi relativi alla protezione dell’ambiente. Si tenga conto del fatto che il macronismo in senso stretto scomparirà alla fine di questo quinquennio, poiché il presidente della Repubblica non può essere rieletto per più di una volta, e che l’insieme delle forze moderate sarà guidato verosimilmente da Edouard Philippe e Bruno Le Maire, che vengono all’origine ed entrambi dal partito post-gollista. Se, come è inoltre possibile, i post-gollisti sono destinati lentamente a scomparire (e si divideranno fra quelli che andranno con Le Pen e altri che andranno con Philippe), si può immaginare che il secondo mandato di Macron sarà sul piano della politica interna più conservatore, coerentemente con i risultati elettorali (anche se di qui al 2027 molti sviluppi oggi imprevedibili possono accadere).

Elisabeth Borne sembra capace di assumere il ruolo che le è stato assegnato e dovrà far uno sforzo notevole per spingere la classe politica a fare compromessi (un atteggiamento a cui quest’ultima è poco abituata), perché a partire dal momento dell’introduzione del mandato presidenziale di cinque anni, nel 2000, il presidente ed il suo primo ministro hanno sempre disposto di una maggioranza assoluta all’assemblea. Riguardo al complesso del sistema politico-istituzionale francese, c’è chi, a fronte del recente risultato elettorale, ha sostenuto che la legge elettorale a doppio turno si sia dimostrata inefficiente e inadeguata. È un’idea impropria: non esiste, infatti, una legge elettorale che garantisca, da sola, il perfetto funzionamento di una democrazia rappresentativa. Si tenga presente, inoltre, che nel caso di una norma di tipo proporzionale la Francia sarebbe oggi assolutamente ingovernabile, divisa come è fra tre forze, senza alcuna possibilità di coalizione fra di loro.

Se si vuole capire perché il sistema politico francese non sia affatto necessariamente bloccato, nonostante l’assenza, inedita da 20 anni, di una maggioranza assoluta coerente con le posizioni del presidente della Repubblica, bisogna tener presente tutto quell’insieme di dispositivi e di norme costituzionali che – come ha ricordato di recente Stefano Ceccanti – vanno sotto il nome di “parlamentarismo razionalizzato”. Questo, di per sé, non ha alcuna necessaria connessione con l’elezione diretta del presidente della Repubblica, introdotta da De Gaulle nel 1962, ma deriva dal testo originale della costituzione del 1958, a regime parlamentare, preparato da Michel Debré, che fra l’altro, all’articolo 49 comma 1, non impone un voto di fiducia da parte dell’assemblea per l’investitura dell’esecutivo.

C’è da notare infine un elemento talvolta trascurato: entrambe le due opposizioni radicali: quella del gruppo legato a Mélenchon e quella di Marine Le Pen potranno per la prima volta rivolgersi al Conseil constitutionnel – l’equivalente della nostra Corte costituzionale – per chiedere il controllo ex ante delle leggi approvate dal parlamento prima della loro promulgazione, grazie alla norma che permette ad un gruppo di almeno sessanta deputati o senatori di adire l’organo del controllo di costituzionalità. Con un evidente crescita del ruolo del Conseil nella sua funzione di garante della costituzione e di arbitro del conflitto fra partiti. Una vicenda che sarà interessante seguire.

Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino

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