C’è un caso Arcuri che potrebbe rivelarsi Conte-Arcuri e diventare, come dice qualcuno, il più grande scandalo della storia recente. Milioni di mascherine irregolari e pericolose per la salute. Dispositivi di protezione acquistati dalla Cina nel corso della prima ondata della pandemia, per il quale ieri la Procura di Roma ha disposto il sequestro presso la struttura commissariale e alcune sue sedi regionali. Una attività istruttoria, affidata alla Guardia di Finanza, svolta nell’ambito dell’indagine avviata da mesi a piazzale Clodio e che vede indagati, tra gli altri, l’ex commissario Domenico Arcuri per peculato e abuso d’ufficio e l’imprenditore Mario Benotti per frode nelle pubbliche forniture.

L’attuale numero uno di Invitalia, è stato interrogato sabato dai pubblici ministeri coordinati dal procuratore aggiunto Paolo Ielo. «Un confronto – si legge in una nota diffusa dall’ex commissario – e un chiarimento che si auspicava da molto tempo con l’Autorità giudiziaria, rispetto alla quale sin dall’origine dell’indagine Arcuri ha sempre avuto un atteggiamento collaborativo, al fine di far definitivamente luce su quanto accaduto». Nei suoi confronti i magistrati contestavano anche il reato di corruzione, una fattispecie per la quale è stata avanzata una richiesta di archiviazione ancora pendente davanti al gip. L’indagine gira intorno all’affidamento, per un valore complessivo di 1,25 miliardi di euro, per l’acquisto di oltre 800 milioni di mascherine. Il 15 ottobre scorso, intanto, la Procura ha firmato un decreto di sequestro dei dispostivi. Nel fascicolo di Roma è confluita l’indagine avviata a Gorizia che portò al sequestro di 100 milioni di mascherine. I pm hanno dato incarico alle Fiamme Gialle di acquisire tutti i Dpi di quel lotto che eventualmente sono ancora nei magazzini fino a un totale di 800 milioni di pezzi.

Nel provvedimento i magistrati scrivono che «l’esame fisico/chimico delle mascherine e dei dispositivi di protezione acquistati, compiuto tanto dall’Agenzia dogane di Roma» che da “consulenti nominati” dai pm ha dimostrato che «gran parte non soddisfano i requisiti di efficacia protettiva richiesti dalle norme Uni En» e «addirittura alcune forniture sono state giudicate pericolose per la salute». I dispositivi, sia mascherine chirurgiche che Ffp2 e Ffp3 o Kn95, non hanno passato gli esami all’”aerosol di paraffina” ed “aerosol al cloruro di sodio”. “Appare necessario procedere al sequestro probatorio” del materiale “attualmente giacente. «Sia di quello appartenente a partite giudicate inidonee – è detto nel decreto – sia quello appartenente a partite non esaminate – potenzialmente inidonee o pericolose – non essendo stato possibile, in base alla informazioni ottenute dalla Struttura Commissariale, distinguerli da quelli di partite esaminate con esito regolare al fine di garantire la possibilità della perizia, evidentemente necessaria per la prova di responsabilità penale e per l’accertamento di idoneità». Secondo l’impianto accusatorio “la validazione” del materiale «ha quasi sempre seguito (e non anticipato) i pagamenti delle forniture. Cosicché le strutture Inail e Iss a supporto del Comitato tecnico scientifico si sono trovate nella scomoda condizione di dover sconfessare, in caso di giudizio negativo, pagamenti con denaro pubblico già erogati».

E ancora: “a giustificazione di un operato meno rigoroso” c’era anche «la situazione di emergenza in sé, che imponeva acquisizioni forzose, pur di non lasciare la popolazione sanitaria sprovvista di tutela. Una spiegazione che presta il fianco ad evidente critica: dichiarare protettivo un dispositivo di dubitabile idoneità può indurre esposizioni sanitarie avventate», aggiungono. «D’altro canto la parola ‘emergenza’, nella vicenda oggetto di indagine, è stata spesa molto, ma anche in modo non coerente. Così, l’emergenza ha giustificato pagamenti di dispositivi di protezione, della qualità dei quali nulla ancora si sapeva, col rischio di acquistarne di inutili; al tempo stesso, non ha, tuttavia, avuto agio sulla decisione di respingere ogni altra offerta di chi richiedeva, per fornire dispositivi, anticipazioni dei pagamenti; laddove il rischio di non ricevere merce appare equiparabile a quello di riceverne di inutile», concludono i pm.

Le vicende oggi si allacciano, si intrecciano e si sovrappongono. C’è l’inchiesta romana avviata su Luca Di Donna, Gianluca Esposito e Valerio De Luca che raddoppia la marcia con le nuove carte che si incentrano sulla figura di perno di Di Donna, ex socio di Giuseppe Conte indagato per traffico di influenze proprio in merito ad affari sulle mascherine e test molecolari anti-Covid. Una inchiesta parallela e forse sovrapposta a quella su Arcuri. Sull’intreccio pesa un minimo comun denominatore che disvela il profilo di Giuseppe Conte. Non siamo noi a dirlo: lo scrive l’Arma. Nei brogliacci relativi alle intercettazioni telefoniche di Di Donna, i carabinieri segnalano come Di Donna avrebbe infatti «acquisito potere e potuto condurre interventi che hanno portato un arricchimento economico per tutti i sodali» del gruppo criminale, dopo che ‘una persona’ si è affermata «sotto il profilo politico». Chi, nel ristretto gruppo di lavoro di Di Donna, si è affermato recentemente e improvvisamente in politica, se non Conte?

Qui c’è materia per una commissione di inchiesta, eccome. «Se le accuse e i sospetti fossero confermati saremmo di fronte al più grande scandalo italiano, superiore forse anche a Tangentopoli», dice Matteo Renzi. Va dato atto, è stato il primo (e a lungo, l’unico) a sollevare dubbi e chiedere l’istituzione di una Commissione bicamerale d’inchiesta. Avversata da tutti, che affossarono prima al Senato la proposta istitutiva a prima firma Davide Faraone, e poi a Montecitorio quella analoga, a prima firma Lisa Noja. «Noi la chiediamo da un po’, in solitudine», riepiloga Noja, Italia Viva, al Riformista. «Adesso si stanno unendo altri. Ma ricordo che in Commissione, quando c’era da votare sulla curiosa richiesta leghista della commissione per indagare sull’origine del Covid, noi chiedemmo di indagare su come erano state gestite le prime emergenze, inclusi gli acquisti. Ci fu un fronte unico per votare contro il nostro emendamento. Bocciato senza esitazioni. Poi sulle ambiguità, sui profili di illeceità e sull’eventuale coinvolgimento di Conte, rimettiamo la parola alla giustizia. Oggi si proceda autonomamente rispetto al lavoro della magistratura, con uno strumento diverso, per capire che cosa non ha funzionato prima ancora di giudicare. Purtroppo oggi scopriamo che avremmo avuto ragione a mettere in piedi una commissione di inchiesta, sarebbe stata una opportunità in più per la politica. Rilanciamo oggi: la nostra proposta è pendente da sei mesi».

Anche Coraggio Italia, dunque l’area moderata fuoriuscita da Forza Italia, alza il tiro su Arcuri. «È importante procedere velocemente e in modo adeguato con una commissione di inchiesta, per la verifica della gestione iniziale della pandemia che ha portato a più di 130 mila morti solo in Italia». Lo afferma la deputata di Coraggio Italia, Maria Teresa Baldini commentando l’inchiesta sull’acquisto delle mascherine dalla Cina da parte del commissario speciale Domenico Arcuri. «Occorre – sottolinea Baldini – una commissione adeguata e responsabile del momento storico che abbiamo attraversato e stiamo attraversando. È una situazione complessa che richiede modalità particolari. Occorre comprendere cos’e’ realmente avvenuto ed è etico capirne le dinamiche». La chiedono adesso anche Fratelli d’Italia con Malan e Rampelli (“Ecco il lascito del governo Conte”).

Salvini può ben rilevare un argomento ben noto e sempre attuale: le indagini con annuncio a orologeria. «Vedo – ha detto il leader della Lega – che ci sono inchieste che guardano a destra sempre prima del voto, e che poi finiscono in nulla e inchieste che guardano a sinistra e portano a condanne che emergono dopo il voto. Che poi nella gestione Conte-Arcuri qualcosa non torni lo lascio decidere ai giudici o alla storia». Il terremoto giudiziario per la prima volta tocca il cuore stesso della cabina di regia di un governo pentastellato nato sui terremoti giudiziari degli altri.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.