L’Iran continua a muoversi. E le sue mosse vengono osservate con molta attenzione dagli Stati Uniti, preoccupati dal programma nucleare degli Ayatollah ma anche interessati dalle strategie della Repubblica islamica.
In questi giorni, ad alimentare la curiosità sulle scelte dell’Iran è soprattutto la visita in Arabia Saudita del ministro degli Esteri, Hossein Amirabdollahian. Fino a pochi mesi fa, un viaggio del capo della diplomazia iraniana nella terra dei Saud sarebbe stato pressoché impensabile. Ma dopo l’intervento diretto della Cina per normalizzare i rapporti, i due rivali hanno ricominciato a dialogare. E questo dopo anni di scontri – duri per quanto indiretti – che li hanno visti divisi sui fronti più bollenti dello scacchiere mediorientale, dalla Siria allo Yemen, dal Libano all’Iraq.

Amirabdollahian, in conferenza stampa con l’omologo saudita, il principe Faisal bin Farhan, ha affermato che i rapporti vanno nella “giusta direzione”, rilanciando l’ipotesi di un incontro tra i leader dei due Stati. Dal canto suo, il ministro saudita ha confermato l’intenzione di Riad di rafforzare le relazioni con Teheran, e ha definito il ritorno ai normali rapporti diplomatici un “punto di svolta per la sicurezza nella regione”. Parole molto chiare e non riducibili a delle semplici formalità istituzionali.
In una regione come il Medio Oriente, incontri e dichiarazioni assumono sempre un significato specifico. E non è un caso che il ministro iraniano abbia prolungato la sua visita in Arabia per incontrare anche il principe ereditario Mohammed bin Salman. Il leader di fatto di Riad, reduce dal recente incontro di Gedda sull’Ucraina, ha tutto l’interesse a confermare i buoni rapporti con i rivali iraniani, complice anche il coinvolgimento di Pechino nella disfida. Del resto, per il Medio Oriente si tratta di un momento particolare. L’inserimento della Cina nella partita per la leadership regionale ha modificato sensibilmente i parametri a cui i governi locali erano abituati.

Gli Stati Uniti vogliono evitare di far apparire il loro ritiro strategico come un disimpegno verso una regione fondamentale per la stabilità mondiale. Ma l’impressione è che la maggior parte delle potenze dell’area inizi a guardarsi intorno senza sentirsi necessariamente legate all’Occidente. Le sirene dei Brics – il blocco che unisce i Paesi emergenti al di là del mondo occidentale e che si riunirà in Sudafrica con l’ambizione di ampliarsi ad altri partner – risuonano tanto in Africa quanto in Asia. Il blocco non è (ancora) paragonabile al sistema di alleanze di Washington, ma i recenti sommovimenti geopolitici non fanno dormire sonni tranquilli alla Casa Bianca, preoccupata di non riuscire più a mostrare quell’autorevolezza che per decenni aveva garantito la leadership Usa in diversi ambiti.

In questo senso, non riuscire a spezzare i legami tra la Russia e il “sud del mondo” nonostante le sanzioni e nonostante soprattutto l’invasione dell’Ucraina, è, per Washington, un segnale preoccupante. E anche in questo caso, l’Iran può essere un perfetto termometro delle perplessità statunitensi. Da tempo gli Usa premono sulla Repubblica islamica per far cessare la consegna dei droni alle forze russe, al punto che ne hanno parlato anche durante i negoziati per la liberazione dei cinque detenuti americani in Iran. Il pressing aumenta, e lo dimostra la rivelazione del Washington Post su una fabbrica ad Alabuga, nella Repubblica del Tatarstan, per produrre droni con la collaborazione dei tecnici iraniani. L’obiettivo russo è quello di riuscire a produrre seimila droni entro il 2025, e confermerebbe gli scenari ben poco rosei sul futuro della guerra in Ucraina. Teheran, sotto sanzioni e sempre più proiettata a oriente, non sembra interessata a rompere l’asse con Mosca. E ora che vuole entrare nei Brics, la domanda che si pongono gli osservatori è non solo cosa possa succedere alla Repubblica islamica, ma anche quali siano le prospettive di un Medio Oriente in piena rivoluzione.