Con il governo alle prese col rimpallo di responsabilità legato alla seconda ondata del Covid, l’attività politica italiana sembra essersi fermata. Si rimandano i congressi, sono pressoché sospese le attività parlamentari, ridotto all’osso il confronto istituzionale, monopolizzato il dibattito pubblico, com’è ovvio che sia, dalla diffusione del virus e dalle repressioni a cui inevitabilmente andremo incontro. Eppure proprio in questi giorni di massima tensione sta prendendo forma un aspetto tutt’altro che marginale della nostra vita democratica, e cioè l’identificazione dei contendenti alle elezioni amministrative della primavera prossima, che riguardano in primo luogo le città di Roma, Milano, Napoli e Torino. Città tutte importantissime, e con gravi e pesanti criticità da affrontare, non solo legate al tema Covid. Le forze politiche sono al lavoro, i singoli anche. A Roma, per esempio, Sgarbi e Calenda hanno giocato d’anticipo e sparigliato la sonnolenta routine dei rituali di partito, a Torino la Appendino non si ricandida e si aprono varchi che sarebbero stati inimmaginabili fino a poco tempo fa.

Il centrodestra potrebbe ottenere ottimi risultati in queste città, nelle quali è all’opposizione, rafforzando così la percezione di essere vera maggioranza nel Paese ed ottenendo nuove leve nella dialettica con la maggioranza. Le condizioni per riuscire ci sono tutte, a partire dalla fallimentare condotta del governo giallorosso, in picchiata nei sondaggi per via della ingarbugliata e improvvisata gestione dell’emergenza sanitaria ed economica. Si tratta, per il centrodestra, di un passaggio di maturità, necessario anche a rinsaldare il significato stesso di coalizione, un po’ appannato di questi tempi anche per via delle incertezze sulla futura legge elettorale. Ma è un passaggio importante anche per i leader del centrodestra, chiamati a dimostrare grande capacità e determinazione, perché vincere Roma e Milano (senza nulla togliere alle altre città dove si vota) cambierebbe radicalmente il volto politico del Paese senza dover attendere le calende greche delle elezioni nazionali del 2023 (io sono tra coloro che pensano che non ci sarà scioglimento anticipato delle Camere). Parliamo di due comuni che da soli raccolgono poco meno di 4 milioni e mezzo di abitanti, parliamo delle due città che da qualche parte sono il simbolo congiunto di tutte le forze e le contraddizioni della nostra identità nazionale.

Proprio per questo non riesco a comprendere bene la scelta di Salvini e Meloni, l’uno milanese, l’altra romana, di non candidarsi nelle rispettive città, dove otterrebbero risultati eccellenti e dove potrebbero diventare i sindaci politicamente più potenti d’Europa. Non voglio togliere nulla ai nomi eccellenti di possibili candidati che circolano in queste ore, da Bertolaso a Roma a Dompè o Resta a Milano. Si tratta di figure di altissimo calibro e forte richiamo, che potrebbero giocarsi benissimo la sfida per il governo delle due città. Ma il nodo qui è politico, e riguarda l’affermazione del centrodestra italiano. Per questo la candidatura di Salvini e Meloni mi sembrerebbe la scelta più ovvia e naturale: entrambi esprimono una fortissima leadership personale, entrambi sono a capo dei rispettivi partiti (i quali esprimono insieme circa il 40 percento del voto degli italiani) dopo una lunga gavetta che ha consentito loro di maturare la giusta tenuta ed esperienza, entrambi hanno carica vitale, gioventù e capacità comunicativa dalla loro parte e soprattutto entrambi sono portatori di un’idea di politica, quella sovranista, che sembra piacere molto agli italiani e che merita di essere testata nella sua sostenibilità anche e soprattutto a livello amministrativo. L’occasione è dietro l’angolo.

Ecco perché è difficile comprendere la scelta dei due leader. Sono certa che non sia dettata da paura né da opportunismo. Ma allora perché rinunciare all’opportunità, soprattutto in una fase in cui il ruolo dei leader dell’opposizione rischia di restare marginale ancora per qualche anno? Perché non utilizzare questo periodo di tempo provando a governare le città più importanti d’Italia e caratterizzandosi ancora di più come epicentri di un modello politico alternativo, che si ispira al rafforzamento dell’identità nazionale e di quelle locali in antitesi con la globalizzazione? Credo che sia Salvini che Meloni sarebbero oppositori più forti di questo governo deficitario da due posizioni così vicine ai cittadini italiani e alle loro drammatiche necessità. Si tratta di valutazioni che credo sarebbe utile conoscere da parte di due leader così identitari e anticonvenzionali.