L'intervista
Milano non è per tutti, Luca Pesenti: “La politica fatica a governare le grandi accelerazioni. A mancare è la cultura della sussidiarietà”
Il docente di sociologia dell’Università Cattolica: “Sono venute meno le logiche riformiste che univano le ragioni del mercato e quelle del bene comune”

Si assiste ad una progressiva divaricazione tra la politica e le criticità reali, a maggior ragione in un quadro metropolitano e complesso come quello di Milano. Cosa è accaduto per arrivare a questo?
«La risposta richiederebbe un convegno… In estrema sintesi diciamo che l’arretramento del ruolo del pubblico a puro regolatore non ha fatto i conti con l’esplosività di processi globali che hanno la capacità di concentrare immensi capitali in punti molto concentrati. Questo non accade solo in Italia. La politica non ha avuto la forza di correggere verso il bene comune una spinta così potente».
Non ha la forza, non ha gli strumenti o non se li è costruiti?
«Io temo che non abbia più la forza. In Italia c’è stata una tempesta perfetta. Mentre la globalizzazione neo-liberista minava la possibilità di governo degli Stati nazionali, Tangentopoli ha indebolito la politica e i partiti. Ma i partiti di massa sono sempre stati la cinghia di trasmissione del bisogno verso le élite, il luogo in cui trovavano ascolto e venivano convogliate la rabbia, i bisogni, le esigenze, le urgenze, le domande dei ceti medi e popolari. Questa cinghia di trasmissione è fondamentale nel collegamento tra la politica che governa i territori e il popolo».
Tra i bisogni e le soluzioni…
«Eh sì, in questo senso il populismo continua a essere letto come una malattia ma in realtà è semplicemente sintomo ed effetto di questo tipo di meccanismo».
A Milano tutto questo sembra di essere in modo particolarmente evidente perché rappresenta il modello di cui lei parlava, cioè la concentrazione di grandi capitali in condizioni ristrette e in realtà la mancanza di ricaduta sull’area più vasta.
«A Milano secondo me c’è un’aggravante: è stata strategicamente perseguita una logica di sviluppo da “città globale” che oggi mostra tutti i problemi di cui stiamo discutendo. Si è preso a modello Londra e si è seguito quella linea nello sviluppo della città: vuol dire che sostanzialmente è stata lasciata mano libera ai grandi investitori, anche esteri. Immaginando l’esistenza della famosa “mano invisibile del mercato” che avrebbe dovuto distribuire in maniera ottimale benefici e rischi tra la popolazione. C’è stata insomma una sottovalutazione dei possibili rischi e un arretramento della politica e di quelle logiche riformiste che avrebbero dovuto coniugare le ragioni del mercato con quelle della comunità e del bene comune. Si è così dimenticata la tradizione di Milano: apertura e sviluppo coniugate con integrazione e interclassismo. Con grande ritardo ci rendiamo tutti conto oggi del fatto che Milano è una città fuori portata per una larga fetta della popolazione, in forza anche di uno sviluppo iper accelerato. E quando ci sono grandi accelerazioni, la politica fa sempre fatica a governarle, soprattutto se fiaccata da 30 anni di antipolitica».
E qui andiamo a parlare del sistema di sussidiarietà e lo chiamiamo nella realtà milanese metropolitana. Il sistema di sussidiarietà è sempre stato molto forte, molto efficiente, molto radicato, molto diffuso Milano, lo è ancora con grandi centri di assistenza, manifestazione, iniziativa. Basta? È giusto affidarvisi come se fosse un’entità autonoma senza che faccia parte di un progetto, di una strategia amministrativa, anche politica?
«Sicuramente non basta. Dal mio punto di vista lo slogan “più società e meno Stato” è superato. Fu coniato alla fine degli anni ’80, in piena coerenza con la richiesta di libertà di quel periodo. Oggi prevale una domanda di protezione da parte della società, che si sente sempre più minacciata. Per questo è tempo di dire “più società con lo Stato”, che a livello locale significa ad esempio amministrazione condivisa, coprogettazione, co-programmazione. Non a caso la Corte Costituzionale definisce questi strumenti come modalità più adeguate per la realizzazione del principio di sussidiarietà. C’è insomma bisogno contestualmente della responsabilità da parte pubblica e da parte del terzo settore di costruire insieme le agende e i quadri di risposta».
Si ha la percezione che il pubblico si faccia giustamente vanto della presenza di una sussidiarietà privata, spontanea, volontaristica importante, ma poi quando si tratta invece di farla propria, di integrarla in un progetto amministrativo non ci sia lo slancio…
«Perché non c’è l’autentica cultura della sussidiarietà. Uno dei miei maestri accademici, Pierpaolo Donati (sociologo bolognese), ci ha sempre avvertiti del fatto che esistevano due dimensioni della sussidiarietà. La prima, negativa e difensiva, prevede la limitazione delle competenze del pubblico: non faccia il pubblico ciò che il terzo settore può fare autonomamente, possiamo dire. Ma se ci si ferma qui, a un principio di tipo liberale, sabotiamo la portata del principio. Occorre perseguire anche una logica attiva e promozionale della sussidiarietà: faccia il pubblico tutto quanto in suo potere per dare spazio e forza alla società civile e al terzo settore. Questa seconda parte è stata troppo spesso dimenticata, anche a Milano, perché richiede un vero salto di qualità proprio della cultura politica e amministrativa».
Anche perché nel frattempo sono nate le nuove polarità, le nuove criticità, mentre l’immigrazione, le periferie non sono state coinvolte in questo piano di sviluppo importante. Di conseguenza è evidente che anche il terzo settore si è ritrovato a dover affrontare delle sfide nuove.
«Attenzione però a non pensare che sia solo un problema determinato dalle migrazioni, perché tutti i dati sulla povertà degli ultimi 15 anni, anche a Milano, ci dicono che, ad esempio, la povertà assistita dal terzo settore è cresciuta soprattutto tra gli italiani. Proprio nelle periferie, nei quartieri sempre meno connessi con i flussi e le dinamiche della città globale, occorre più società insieme a più presenza pubblica: l’una e l’altra da sole non possono farcela. La mia grande preoccupazione su Milano è che si stia accentuando un processo espulsivo: c’è già stato un calo della popolazione che ha fatto aumentare i single ad alto reddito ed espulso famiglie di ceto medio e popolare. Un processo di sostituzione per censo: è davvero la Milano che vogliamo? Questa è la discussione pubblica di cui sento l’urgenza: deve nascere dal basso, dai corpi sociali, dal sindacato, dal terzo settore. Superando anche qualche timidezza e il difetto di visione mostrato in questi anni».
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