Ieri il portavoce delle brigate al-Qassam, la falange militare di Hamas, ha dichiarato che il proprio leader, Mohammed Deif, sarebbe stato ucciso nel luglio scorso durante un’operazione bellica israeliana. Hamas non aveva mai confermato la notizia, anzi più volte l’aveva esplicitamente od obliquamente smentita.

L’uccisione di Deif, di alcuni luogotenenti e di un numero imprecisato di miliziani è avvenuta nel sud della Striscia, in particolare nella “safe zone” di al-Mawasi. Si parlò molto di quell’operazione, ma si parlerà poco della notizia, ora confermata, che ne illustra la realtà più rispondente. Fece strepito perché la formazione terroristica, com’è suo costume, diffuse i dati relativi ai presunti effetti dell’attacco israeliano: 90 morti, ovviamente civili, e ovviamente composti in maggioranza da donne e bambini. Una rappresentazione che la stampa maggioritaria, com’è suo costume, fece propria e rilanciò con opportune titolazioni impressionistiche sull’ennesima, gratuita strage di cui si rendeva responsabile l’esercito israeliano.

Si parlerà meno di questo tardivo chiarimento del quadro della vicenda perché, un’altra volta, a farsi più chiaro è ciò che assai faticosamente riesce a penetrare la coltre di disinformazione che ammanta l’ordinario racconto della guerra di Gaza. Ciò che emerge – ed è ciò che ripugna alle finalità di quel racconto sguercio – è che Hamas neppure si limita a esporre i civili al pericolo di essere coinvolti in situazioni di confronto bellico, ma li usa deliberatamente e sistematicamente in modo funzionale al proprio programma di battaglia. Hamas, cioè, ha pianificato il proprio attacco a Israele con la volontà di trasformare Gaza in un campo di guerra e, letteralmente, ne ha programmato la distruzione. I civili di Gaza erano l’essenziale materia passiva di quella pianificazione.

Mohammed Deif era uno dei tre capi del terrorismo palestinese, di cui il prosecutor della Corte Penale Internazionale chiedeva che fosse ordinato l’arresto. Non casualmente, tra i motivi della richiesta non c’era quest’altro crimine, di cui Hamas, con i suoi capi, è platealmente responsabile senza che mai se ne sia fatto loro addebito: e il crimine, appunto, pure previsto dal diritto internazionale, risiede nel comportamento di forze combattenti che si mischino ai civili, che se ne facciano scudo o anche solo ne invochino la presenza per proteggersi dagli attacchi della controparte.

Ma se quel crimine non figurava nell’esplicito elenco degli addebiti a carico di Mohammed Deif, né della coppia – Sinwar e Haniyeh – a sua volta eliminata da Israele, nemmeno il sistema dell’informazione e il generale dibattito pubblico facevano mostra di considerare improprio l’impianto di centri di comando e l’allestimento di dispositivi bellici nelle zone destinate ai civili e tra gli accampamenti degli sfollati.

Semmai, quei giornali e quegli osservatori – vedi il New York Times, e per carità di patria, cioè per vergogna, non citiamo gli esempi di casa nostra – si affidavano ai comunicati degli stessi responsabili di quei crimini, i quali negavano che nella “safe zone” ci fossero loro militanti e accusavano Israele di sganciare bombe proprio sulle zone che avevano designato come “sicure”. Una retorica intimidita, oggi, davanti alla notizia relativa ai frequentatori di quei luoghi.