Nel bel libro di Alessandro Barbano (L’inganno – Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene) trovo citata questa frase, tratta da un mio articolo pubblicato qualche anno fa sul Riformista: “Il finalismo antimafia, quello in nome del quale si adotta il mezzo del rastrellamento giudiziario, dell’indagine a strascico, della tortura in carcere, non fu l’incomprensibile messa in pratica di qualche isolato vagheggiamento di un manipolo di pubblici ministeri: ma l’attuazione di una cultura diffusa e la soddisfazione di una pretesa comune”.

Constatazione tanto banale quanto gravemente attuale, mi pare. Far finta che non sia così, e credere che gli abusi di cui si è resa responsabile la disciplina cosiddetta antimafia siano da attribuire all’esclusiva monopolistica di un potere temibile ma ristretto, autonomo e indipendente (si apprezzi il riferimento) rispetto al milieu sociale e civile che ne ha accreditato gli intendimenti e l’azione, può essere in qualche modo consolante. L’abuso antimafia come l’inopinata e correggibile aberrazione di un corso giudiziario altrimenti ineccepibilmente retto, presidiato da un’attenzione pubblica occhiutissima a vigilarne gli argini di compatibilità costituzionale e democratica. Magari. E sarebbe consolante, quella convinzione, pure se l’abuso antimafia avesse avuto modo di imporsi non ostante quella vigilanza: in quel caso avrebbe vinto l’abuso, sì, ma per forza propria e autonoma, e soprattutto nel riconoscimento che esso era tale, che esso era abuso. Nuovamente: magari.

Perché non è andata così e non va così. Al contrario, era ed è convincimento comune che sia possibile e giusto arrestare trecentocinquanta persone al fine di acciuffarne qualcuna forse responsabile di qualcosa. Era ed è convincimento comune che incarcerare un buon numero di innocenti appartenga a un’accettabile fisiologia, se questo è il prezzo da pagare alle preminenti e irrinunciabili finalità antimafia. Era ed è convincimento comune che il carattere personale della responsabilità penale si attenui fino a scomparire nel trionfo inquisitorio della giustizia antimafia che incrimina il possesso di un cognome, fa scrutinio del grado di parentela, procede per blocchi familiari e per provenienza regionale.

Era ed è convincimento comune che l’efferatezza del crimine mafioso non solo giustifichi, ma raccomandi, l’efferatezza del regime carcerario, e che sia non solo inappropriato, ma connivente e oltraggioso per le vittime, reclamare che il carcerato possa accarezzare il figlio di quattro anni o abbandonarsi al lusso intollerabile di cucinarsi un piatto di pastasciutta. La politica che ha messo in legge questa giustizia piombata, e i magistrati che la applicano insorgendo davanti a ogni ipotesi di revisione, anzi istigandone senza sosta l’inasprimento, si sono fatti attuatori di una mozione di inciviltà preesistente ben propagata. Non si cambia la giustizia se non si cambia la società che la genera.