Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, l’attenzione della comunità internazionale è concentrata sulla guerra d’Ucraina, entrata nel secondo anno. Ma nel mondo si stanno combattendo più di 40 guerre “ignorate” Siamo all’istituzionalizzazione di un doppio standard sui diritti umani?
L’aggressione russa contro l’Ucraina non solo ha prodotto una spaventosa crisi dei diritti umani ma ha anche reso ancora più evidente come, proprio sui diritti umani, vengano fatte scelte condizionate dalla politica, dall’economia e da miopi valutazioni su vantaggi e svantaggi di breve periodo. Così, se la risposta dell’Occidente a Putin è stata robusta e rapida, se i crimini di guerra russi hanno ottenuto l’attenzione e la condanna che meritavano, se finalmente c’è stata un’accoglienza degna, generosa e rispettosa dei diritti per le ucraine e gli ucraini in fuga dalle bombe, altrove abbiamo notato l’opposto: disinteresse per gli altri conflitti (primo tra tutti quello, tremendo, dell’Etiopia); silenzio complice sui crimini commessi altrove, ostacoli, respingimenti e soccorsi tardivi o assenti ai danni di chi veniva da sud e da est, per ragioni non meno urgenti di chi veniva da nord. Insomma, se nel corso della giornata una vicenda riceve una condanna e una simile passa sotto silenzio, se prevale il sistema del grappolo d’uva, di cui si selezionano i chicchi da mangiare e quelli da scartare, è il sistema internazionale di protezione dei diritti umani a mostrare, nel suo complesso, profonda inadeguatezza. I meccanismi delle Nazioni Unite soffrono di una costante politicizzazione. Sono anni che chiediamo una riforma del funzionamento del Consiglio di sicurezza, che passi attraverso la rinuncia al potere di veto in caso di crisi dei diritti umani. Ma ancora non c’è verso.

Per restare sulla guerra d’Ucraina. Per aver documentato la violazione dei diritti umani nel conflitto anche da parte dell’esercito ucraino, Amnesty International è stata accusata di essere filo Putin. Eppure un recente rapporto delle Nazioni Unite vi ha dato ragione.
Quel rapporto dell’Onu dice una cosa semplice: che anche le forze armate di uno stato aggredito non sono insindacabili e possono a loro volta commettere crimini, anche se su scala enormemente inferiore. Nel 2022, anno in cui Amnesty International ha pubblicato un’ottantina di rapporti e comunicati stampa in cui si mettevano nero su bianco i crimini di guerra russi, abbiamo diffuso una nota di tre pagine nella quale rilevavamo che in alcuni casi specifici, meno di 20, le forze ucraine avevano attuato tattiche che avevano messo in pericolo i civili che stavano difendendo, ad esempio insediandosi in centri abitati e strutture civili. Questo ci è costato l’accusa di essere filo-putiniani, nonostante un mese dopo l’inizio della guerra il nostro ufficio di Mosca fosse stato chiuso. Naturalmente, l’accusa opposta ci è stata rivolta quando abbiamo espresso apprezzamento per il mandato di cattura emesso dalla Corte penale internazionale nei confronti di Putin. A quest’accusa se n’è aggiunta anche un’altra, sempre riferita all’azione della giustizia internazionale: di compromettere i tentativi di pace. È come se improvvisamente dall’antico slogan “non c’è pace senza giustizia” (quello in nome del quale, 25 anni fa, era nata proprio la Corte penale internazionale) fosse stato rimossa la congiunzione “non”. O, peggio ancora, fosse stato trasformato in un atroce “non c’è pace senza impunità”.

Quali sono i casi più eclatanti di questo “doppio standard” documentati da Amnesty International nel suo Rapporto 2022-2023?
Gli stati d’emergenza adottati da Polonia, Lituania e Lettonia per legittimare i respingimenti di richiedenti asilo, se confrontati con l’accoglienza di chi fuggiva dall’Ucraina. L’accondiscendenza nei confronti degli stati del Golfo, la cui reputazione internazionale migliora tanto quanto peggiora la situazione dei diritti umani al loro interno. Le condanne per la repressione nei confronti delle proteste in Iran e in Afghanistan per poi colpevolizzare le persone che da quei paesi fuggono. Il silenzio nei confronti del sistema di apartheid dello stato d’Israele contro la popolazione palestinese, applicato in modo sempre più crudele. Gli Usa che tengono ancora aperto il centro di detenzione di Guantánamo, scempio del diritto internazionale da oltre 20 anni, come se fosse una cosa normale. Un caso a parte è quello della Cina, dove almeno dal 2017 è in corso una campagna di soppressione dei diritti culturali e religiosi delle minoranze musulmane della regione autonoma del Xinjiang. Il governo di Pechino è riuscito a impedire la pubblicazione del rapporto della relatrice delle Nazioni Unite sui diritti umani, Michelle Bachelet, praticamente fino agli ultimissimi giorni del suo mandato.

Tunisia, Algeria, Marocco, Libia, Egitto. La sponda sud del Mediterraneo è marchiata da regimi autoritari che hanno riempiti le carceri di oppositori e creato, vedi la Libia, veri e propri campi di concentramento per migranti. Eppure l’Europa e l’Italia continuano a fare affari con gli al-Sisi, i Saied, oltre che continuare ad armare la cosiddetta guardia costiera libica.
Non solo, ma la necessità di diversificare le fonti energetiche per non finanziare la guerra di Mosca contro l’Ucraina ci ha reso ancora più dipendenti da governi autoritari della zona, come Algeria ed Egitto. Gli affari con l’Egitto di al-Sisi proseguono floridamente. A luglio ricorrerà il decimo anniversario del suo colpo di stato: dieci anni in cui non si è udita la minima critica nei confronti delle gravissime violazioni dei diritti umani, anche quando hanno riguardato dolorose vicende che coinvolgevano direttamente il nostro paese. Il rinnovo del memorandum con la Libia, una delle occasioni mancate dall’Italia per un progresso nel campo dei diritti umani nel 2022, ha confermato che le nostre istituzioni sono disposte a tutto per portare avanti le loro politiche di contrasto all’immigrazione: pazienza se la cosiddetta guardia costiera libica continua a intercettare in mare migliaia di persone e a riportarle esattamente nei luoghi dai quali avevano tentato la fuga, per non parlare di quelle che in mare annegano; e pazienza se le indagini della Corte penale internazionale e, da buon ultimo, il rapporto delle Nazioni Unite ci descriveranno come complici nella commissione di crimini di diritto internazionale. Gli sviluppi delle relazioni con la Tunisia sono la conferma di un approccio che non guarda in alcun modo ai diritti umani. È certamente giusto soccorrere uno stato amico in grave crisi economica anche se in questo caso l’obiettivo, più che solidale, mi pare cinico: scongiurare le condizioni che favoriscono le partenze. Ma a proposito di quell’obiettivo, non ho sentito levarsi una sola voce di condanna per i discorsi d’odio e le espressioni xenofobe del presidente tunisino Saied circa le “orde di migranti irregolari provenienti dall’Africa subsahariana (…) per cambiare la composizione demografica” e fare della Tunisia “un altro stato africano che non appartiene più al mondo arabo e islamico”. Non è questo un push factor?

E in Italia, qual è lo stato dei diritti umani?
Nel 2022 è terminata una Legislatura molto timida sui diritti umani e ne è iniziata un’altra molto aggressiva contro i diritti umani. È stato, quello passato, un anno di occasioni perse: penso alla riforma della cittadinanza, un problema irrisolto da trent’anni, così come alla mancata approvazione del ddl Zan e una riforma reato di stupro basata sul criterio del consenso. Su questioni di fondamentale importanza, come le crudeli politiche di contrasto all’immigrazione e la criminalizzazione delle Ong che fanno ricerca e soccorso in mare, c’è stata continuità da un governo all’altro: meglio, da più governi passati a quello attuale. L’inizio di questa Legislatura ha mostrato bene qual è il pericolo che abbiamo di fronte a noi: che si facciano passi indietro, che si erodano ulteriormente gli spazi di libertà, che conquiste per le quali ci sono voluti decenni possano essere annullate in poco tempo. L’esempio del dibattito di queste settimane sul reato di tortura (introdotto nel 2017 dopo una campagna durata 28 anni) è eloquente.

Ma insomma, non c’è proprio nulla da salvare, niente di positivo che emerga dal Rapporto 2022-2023?
Certo! Malgrado la furibonda repressione, l’attivismo resiste nelle strade e nelle piazze del mondo e prende a spallate i poteri. In Colombia, la tenacia dell’attivismo per i diritti delle donne e le azioni legali hanno contribuito alla decisione della Corte costituzionale di decriminalizzare l’aborto durante le prime 24 settimane di gravidanza. Dopo una campagna portata avanti per anni, il parlamento della Spagna ha approvato la legge che pone il consenso al centro della definizione giuridica di stupro. Kazakistan e Papua Nuova Guinea hanno abolito la pena di morte. C’è dunque molto da salvare, anche se spesso non fa notizia. In 87 stati ci sono state imponenti proteste pacifiche. È da lì che arriva la spinta al cambiamento. Per quello, i governi le reprimono così duramente. Come mi disse un’attivista algerina, “una volta che scendi in strada è difficile che ti ricaccino dentro casa. Possono chiuderti in galera ma un’altra persona scenderà in strada al posto tuo”.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.