L'appello per l'avvocato
Oltre 700 firmano per Pittelli: lezione della società civile di fronte alla violenza dello Stato
Oltre settecento firme raccolte in due giorni, amici, conoscenti e sconosciuti. E una pagina intera con nomi e cognomi di avvocati. Tutti per lui. Senza timore a mostrarsi, con l’orgoglio di mettersi di fianco all’amico, al vecchio compagno di scuola, al collega magari neanche conosciuto. Di essere con lui mentre giace in un carcere e sta mettendo in gioco il proprio corpo con il digiuno. “…manifestiamo pubblicamente –scrivono in fondo all’appello- e ribadiamo all’avvocato Giancarlo Pittelli gli immutati sentimenti di rispetto, affetto ed amicizia e opponiamo resistenza a ogni uso degli strumenti del diritto che produca come effetto l’isolamento della persona e l’inaridimento delle relazioni sociali ed affettive”.
Il punto centrale è tutto qui: Giancarlo Pittelli, costretto allo sciopero della fame dopo due anni di carcere preventivo, è ancora la persona intera di prima? Ha ancora l’integrità fisica e psicologica del brillante avvocato, del politico la cui vita era ricca di relazioni e di stima? E le sue amicizie, i suoi affetti, gli antichi rapporti sono ancora lì con lui, o si sono piano piano diradati per la paura che lui nel corso del tempo sia entrato a fare parte del mondo dei “cattivi”?
I promotori dell’iniziativa, vecchi amici e compagni di scuola, persone magari politicamente oggi lontane da lui, non hanno inteso stilare un manifesto contro la magistratura, né una difesa d’ufficio dell’imputato Pittelli. Piuttosto ci stanno mostrando un termometro che misura la temperatura di una società civile come quella della Calabria, lacerata dalla presenza pervasiva della criminalità organizzata, ma anche dalle iniziative altrettanto forti di una magistratura inquirente che affonda la spada piuttosto che curare.
Quando il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, al momento del suo insediamento, aveva promesso di “ricostruire la Calabria come un Lego”, chissà quanti cittadini avevano aperto gli animi alla speranza. Poi dall’ottimismo è stato breve il passo verso il dubbio, e poi la paura. Perché la forza dello Stato, per quanto ammantata di legalità, può essere violenta. Violento è il processo, soprattutto se diventa eterno, violento è il carcere, che pare costruito appositamente per diseducare, invece che reinserire. Ricostruire la relazione, ricucire lo strappo. Questo è quel che serve, oggi. In genere -è la teoria della giustizia riparativa tanto cara alla ministra Marta Cartabia– la rottura del patto sociale avviene a opera di chi commette il reato, di chi uccide, di chi rapina, di chi violenta. I “cattivi”. E spetta ai “buoni”, lo Stato, una buona amministrazione della giustizia, i buoni funzionari del carcere, aiutare il “cattivo” nel suo percorso che lo porti con animo e storia di vita ormai diversa verso la vittima, con una nuova relazione che giovi a entrambi. Ma come comportarsi quando lo strappo sociale avviene anche a opera di quelli che dovrebbero ricoprire sempre il ruolo dei “buoni”? Quando si usa la giustizia come una spada e non come l’ago e il filo che ricuciono, che riparano e restituiscono la vita anche dove si sta spegnendo?
Essere vicini a Giancarlo Pittelli oggi vuol dire prima di tutto rompere il suo isolamento. Dirgli che deve continuare a vivere. Manifestare, e anche protestare, perché non deve esistere una custodia cautelare lunga due anni e neanche il carcere prima del processo. E domandarsi a che cosa servano le prigioni, se non per umiliare l’individuo e mostrare la forza dello Stato. E soprattutto essere in tanti a dire che per lui, e per tutti gli altri, mai, mai, si deve operare la distruzione della reputazione. La difficoltà che all’inizio i suoi vecchi amici e compagni di scuola hanno avuto a rompere l’isolamento che sempre accompagna le iniziative della magistratura, quel dire e anche solo pensare “ma in fondo se l’hanno arrestato qualcosa avrà fatto”, indicano che in Calabria in questo momento c’è qualcosa che non va.
Anche gli inquirenti, anche il procuratore Gratteri dovrebbero riflettere su quello che c’è scritto sul manifesto per Giancarlo Pittelli. Perché è molto di più di un gesto di solidarietà nei confronti di una singola persona. È una voce corale che viene dalla società civile che ci dà una lezione esemplare.
La gran parte delle persone che hanno firmato non sa niente di processi, né di prove o indizi. Semplicemente si chiede se sia possibile che una persona che ha sempre goduto di stima e apprezzamento debba essere finita in un buco nero di carcere ed esserci rimasta per due anni senza che ancora ci sia stata una sentenza che ci spieghi che cosa ha fatto di male, che reati ha commesso. E perché ci sia questo clima di paura e di sospetto che lo tiene isolato dal suo mondo. Poi, se volessimo parlare delle imputazioni e delle (mancate) prove, noi che il processo lo conosciamo, dovremmo scrivere un altro documento. Per ora ci limitiamo ad accettare con gioia la lezione di questo pezzo di società calabrese, sperando che altrettanto facciano i veri “cattivi”, quelli che indossano la toga dei “buoni”.
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