Ci sono storie che marcano il destino di un amministratore. Questa che state leggendo è una di quelle. A luglio dell’anno scorso la giunta a guida Roberto Lagalla si insedia a Palermo. La staffetta con la vecchia amministrazione comunale lascia in eredità – oltre alla situazione di pre-dissesto, oltre alle strade bucate come se fossero cadute bombe, oltre alle difficoltà di pulizia nei quartieri, oltre a molto altro – anche uno scenario da film dell’orrore: 1300 bare fuori terra, disseminate lungo i viali del camposanto dei Rotoli. Milletrecento, non è un refuso: avete letto bene. Non c’erano posti nei campi di inumazione, non c’era posto nei loculi, non c’era un tempio crematorio perché rotto. C’era solo una sorta di rassegnazione di fronte a una lunga catena di bare stipate ovunque, in ogni magazzino, in ogni sgabuzzino, in ogni ufficio, in ogni anfratto – spesso una sull’altra, spesso mal conservate, spesso percolanti. C’era chi giornalmente doveva scavalcare i feretri poggiati in terra per potere passare il badge di ingresso e uscita dal lavoro: non ci arriverebbe neanche la fantasia splatter di Quentin Tarantino.

Di tutte le emergenze di cui è ferita Palermo era quella di maggiore impatto mediatico, più sgradevole, dolorosa, infamante. Il sentimento popolare era sintonizzato col cimitero che aveva smesso di accogliere i defunti. Anzi, li rifiutava. Per mancanza di posti. Come un aereo in overbooking. Solo che qui, in questo caso, nel camposanto più grande del capoluogo siciliano, di fronte al mare, in una borgata che per ironia del destino si chiama Vergine Maria, qui non c’erano vacanze andate a male. Ma centinaia di viaggi di sola andata che stentavano a decollare. Avevamo inventato l’esasperazione della morte; il lutto che s’allunga, si accresce, monta, si incrudelisce. L’aldilà e l’aldiquà che si saldano. Quei feretri aumentavano da una settimana all’altra, giorno dopo giorno. Dall’esterno il nuovo ‘caso Palermo’ era visto il paradigma più recente per narrare la città irredimibile.

Non c’è nulla di cui andare fieri, in questa vicenda; nemmeno per chi, come me e l’amministrazione di cui faccio parte, pian piano ha portato alla normalità una situazione che fino al luglio dello scorso anno sembrava destinata a incistarsi nella vita di Palermo come un male ineluttabile. Oggi, lo diciamo solo per la cronaca, di quella montagna di morti insepolti ne rimangono ancora poco più di cento. Averli ridotti a un decimo rispetto a un anno fa non mi è di grande conforto, perché non c’è giustificazione possibile per ciò che le famiglie hanno patito; l’insulto subìto dai morti rimasti a lungo senza tomba è una specie di infamia che ci interroga e ci chiama in causa tutti.

È stata una lezione importante, innanzitutto per me in quanto amministratore. Ci sono momenti in cui tutto quello che hai fatto in politica devi giocartelo in un colpo solo. Vincere o perdere. Quando si cominciò a discutere delle deleghe da attribuire in giunta, quella ai Cimiteri – per evidenti ragioni – era la più scansata. Io, invece – e lo dico senza toni retorici o, peggio, eroici – l’ho cercata. L’ho voluta. Ho pensato che non valeva la pena scappare. C’era solo da metterci la faccia, lavorare e provare a risolvere. E, in caso di sconfitta, lasciare i ruoli pubblici.

E ora vi deluderò. Perché non ho alcun segreto o tocco magico da raccontare, eppure dopo pochi mesi siamo riusciti a invertire la tendenza. Banalmente, ad esempio, c’era un bobcat per il trasporto delle casse fermo da un anno perché mancava un autista. Risolvere una ad una le piccole cose è stata la chiave di volta. C’è voluta abnegazione e cocciutaggine, tempo e sudore, inventiva e anche un pizzico di fortuna. Perché questo significa essere riformisti: mettere in pratica il buongoverno facendo una cosa per volta, non dandosi mai per vinti, lottando contro la burocrazia che da queste parti spagnoleggia. Devo molto a questa esperienza per il carico di umanità supplementare che mi sta lasciando; per le nuove competenze acquisite; per le motivazioni giuste che ho trovato per spronare funzionari, impiegati, operatori, operai, custodi. Io non credo ai lupi solitari, ma alle vittorie frutto di una presa collettiva di coscienza: come è accaduto in questo caso.

Salvatore Orlando

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