Il risultato politico delle ultime amministrative non soddisfa. A pesare come un macigno è l’incapacità di saper cogliere e farsi interpreti di istanze complesse e di presentarsi con una proposta efficace e competitiva. Le grandi narrazioni che tengono insieme le assi della Storia non sono copioni già scritti, ma sono scandite dal peso degli accadimenti, dalle azioni umane e dalla capacità di saper affrontare le sfide del presente, sapendole tramutare in opportunità: funziona così in democrazia.

Accanto al pensiero e alla capacità della politica di elevarsi ad argomentazione, vi è la necessità di saper dar voce e proporre soluzioni pragmatiche e lungimiranti, partendo proprio dai luoghi della prossimità e della complessità: i territori. Al pensiero e alle parole, quindi, deve affiancarsi l’azione. In tal senso, anche lo stesso Platone, spiegando la ragione dei suoi viaggi a Siracusa verso il tiranno Dionisio, ammise: “Salpai da Atene. Non per la ragione che alcuni credevano, ma perché mi vergognavo assai di poter apparire di fronte a me stesso come un uomo capace solo di parole e che mai mette mano di sua volontà alcuna opera”.

La politica non può continuare a decentrarsi e deterritorializzarsi, ma deve far fronte alle dinamiche dell’esistente, divenendo lente di ingrandimento e megafono del quotidiano. Essa deve essere dispositivo privilegiato di conoscenza e di comprensione, capace di entrare in contatto diretto con la vita di tutti i giorni, pronta a curvarsi – come fa un buon padre di famiglia – sulla realtà complessa dei contesti territoriali.

Agli occhi di un sindaco riformista è tutta qui la drammatica disfatta di ciò che voleva e pretendeva di porsi come cambiamento, poiché la discontinuità la si determina nelle azioni; è quella distanza dai territori, la mancanza di coraggio nel prendere posizione per ciò che interessa veramente alle persone, la sterile tecnica politica che soverchia le priorità dell’amministrazione quotidiana, l’immobilismo rispetto alle tattiche di erosione da parte dei presunti alleati, l’idea che non si possa innovare il campo, il linguaggio e gli obiettivi della politica, tutto questo sta consumando identità e consenso assai più rapidamente del previsto. E lo evidenzia una quantità di cronisti ed osservatori di qualità nel Paese, non lo rilevano sulla scorta della delusione solo i bistrattati amministratori locali, che non a caso persino nella fase congressuale del Partito Democratico spingevano per un altro modo di approcciare il destino di quel campo. Dopotutto, al di là di certe ricostruzioni folcloristiche, è esattamente per le stesse motivazioni che, al contrario, il modello politico pugliese ha retto meglio.

Per reagire allo scollamento dalla politica, dunque, occorre ripartire dai territori e dalle azioni incessanti di chi gli spazi dell’abitare e del quotidiano li vive senza sosta. Gli amministratori stanno dimostrando di riuscire ad affrontare le sfide e la complessità del reale, che è come un labirinto inestricabile. E non c’è spazio per alcuna rappresentazione astratta e frettolosa: i buoni amministratori scelgono di occuparsi del presente attraverso una narrazione che non è in alcun modo superficiale. E quanto servirebbe aggiornare l’ordinamento nazionale a favore di questo ruolo delle autonomie locali, come ha invocato il Capo dello Stato dall’Emilia Romagna.

La politica deve essere il terreno dove si mette insieme ciò che è comune e condiviso: la cittadinanza, le forme della democrazia, della rappresentanza, della giustizia, dell’equità, dei diritti civili e della dignità di ogni individuo. L’agorà viene ad articolarsi in un discorso tra cittadini che non è pura sofisticazione intellettualistica e ideologica, ma strettamente connessa alla realtà di una comunità che si scontra, da una parte con le lungaggini della burocrazia e i tempi – spesso lenti – della politica e dall’altra con le scadenze stringenti di sfide epocali non più posticipabili.

È ormai evidente come siano le politiche poste in essere nei territori a delineare il manifesto per un nuovo modo di concepire la politica in cui lo spazio del confronto – assieme alle molteplici difficoltà di governare la complessità – diviene laboratorio idoneo a dare efficace a termini quale transizione ecologica e giusta e sviluppo sostenibile. La cultura politica non risponde ad un presente autoreferenziale, ma presuppone fiducia nel futuro. Si fa politica per chi verrà dopo di noi, sperando che la vita non si esaurisca con la fine della propria esistenza, ma possa prolungarsi, nella discendenza, con l’edificazione di un comune sentire intenso e duraturo.

E i buoni amministratori questo lo sanno bene. Soprattutto quelli che lavorano nel porre le basi per avviare un processo di trasformazione, non solo del modo di intendere la città, ma anche nella costruzione di una fitta rete di principi e di valori. Insomma, più che tirare la giacchetta agli amministratori locali ed esercitare su di loro continue pressioni, sarebbe il momento di ripensare ad uno spazio della politica attorno a loro.

Rinaldo Melucci

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