La riprogettazione
Per la rinascita di Napoli servono nuovi modelli di gestione

Difficile non mettere in fila le cose. Qui il primo incidente sul lavoro alla fine del lockdown. Qui il primo suicidio di un imprenditore sopraffatto dall’incertezza dei tempi. Qui il primo stupro in una città dronizzata per la caccia ai contagiati ma di fatto insicura. Qui le prime immagini di un mare tornato ad annerirsi per gli scarichi abusivi. E una volta avviato l’elenco, che sappiamo tutti essere molto più lungo, come non avvertire la sensazione di una generale fragilità? È l’intero sistema urbano – Napoli, i cento comuni dell’area metropolitana, i tre milioni di abitanti – a rivelarsi debole nelle strutture e nel corpo sociale. Ed è l’emergenza virus che ora deve spingerci a riconsiderare tutto questo. Altro che “rinascimento napoletano” di memoria bassoliniana.
Altro che “città ribelle” (a cosa poi?) di attualità demagistrisiana. Napoli è stata ampiamente raccontata e immaginata da registi, attori, scrittori e artisti. Ora deve essere completamente riprogettata. Sia chiaro: l’ultima fiction firmata da Corsicato conferma quanto gradevole sia questo racconto e quanto diseconomica risulterebbe una sua interruzione, visto che l’industria culturale è ormai un punto di forza acquisito. Ma ora devono entrare in scena gli altri: gli ingegneri, gli architetti, gli inventori di nuovi modelli di gestione, e con loro gli operai, i carpentieri, i manovratori di ruspe (quelle vere) e di gru. Le cose da fare sono molte. E dovunque – non da queste parti- – già se ne parla con riferimenti sia alla teoria che alla pratica. Ci sono da rimettere in salvo le finanze comunali. C’è da riconsiderare la mobilità urbana. C’è da manutenere e valorizzare il patrimonio. C’è da ripensare l’intero comparto del turismo. E a parte le periferie da rammendare, nel senso “alto” proposto da Renzo Piano, e i servizi pubblici da portare a standard europei, ci sono da riprogettare – nel quadro di una totale rivoluzione dei rapporti sociali – sia gli spazi pubblici (dai negozi alle aree di scambio, quelle dove lasciare le merci) sia le abitazioni private, con meno metri quadrati ai luoghi condivisi e più a quelli individuali.
C’è, insomma, l’intera idea di città da rimettere a fuoco. Ma prima ancora di fare tutto questo può essere più utile e più urgente decidere cosa invece non fare. Proprio così. I suggerimenti, a questo proposito, sono essenzialmente due. Il primo. Non credere che tutto possa dipendere dallo Stato. Le risorse ingenti che stanno per essere mobilitate non saranno mai abbastanza se non si dà fiducia all’iniziativa privata. E avere fiducia vuol dire comportarsi di conseguenza, giudicare i progetti nel merito, facilitarne l’attuazione. Napoli, invece, è pur sempre la città in cui gli imprenditori vengono visti con sospetto e definiti, con compiaciuto disprezzo, “prenditori”. Il secondo. Non ricominciare con le utopie. La crisi delle città non implica come unica soluzione possibile il ritorno romantico alla campagna, dove tra l’altro il vivere è lieve per i ricchi e faticoso per i poveri. Un riequilibrio tra terra e cemento, di cui ora si torna a parlare, non può che essere all’ordine del giorno.
Ma l’impressione è che dietro tanta retorica naturalistica si nasconda – vedi de Magistris – non solo la scelta ideologica ma soprattutto l’incapacità di riprogettare la città. Rem Koolhaas, l’archistar che sta diventando il riferimento di tutti gli apostoli della campagna, di recente ha scritto: “Viviamo in una prigione che abbiamo imposto a noi stessi. Dalla vita urbana non c’è da aspettarsi più nulla”. Ecco l’inganno della falsa profezia. È semmai vero il contrario. Dalla città dobbiamo aspettarci e pretendere tutto. E, naturalmente, il meglio. Non solo le piste ciclabili e le pizzerie per la movida.
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