Carissimi,
sono tentato di fare mio quel “sono un detenuto” di Totò Cuffaro perché convinto, come lui, che chi è stato recluso lo è in qualche modo per sempre. Nel senso che chi ha conosciuto la prigione ne subisce gli effetti e i condizionamenti per tutta la vita. Anch’io sono stato in cella per sette mesi, ma richiamare una durata tanto breve suona quasi ridicolo quando si parla davanti a “lungodegenti”: persone che il carcere lo patiranno per anni e per decenni.

D’altra parte, cinquant’anni fa, io ero un detenuto politico, arrestato a seguito di gravi scontri con militanti neofascisti. Questo è un dato importante perché io, quei sette mesi, non solo li ho trascorsi in diverse carceri italiane il cui livello di decoro era superiore a quello attuale, ma perché vivevo la reclusione con un atteggiamento di tranquillità operosa; e perché, soprattutto, la prigionia era conseguenza di una consapevole scelta politica e ciò dava al carcere un suo senso: un effetto collaterale, non voluto ma non sorprendente della militanza politica. All’opposto, è mia convinzione che oggi il carcere non abbia alcun senso. Nessuna razionalità e nessuna utilità. Un sistema totalmente fallimentare rispetto allo scopo indicato dalla Carta costituzionale. Una macchina insensata: criminogena e patogena. Criminogena perché il suo effetto principale è quello di riprodurre all’infinito crimini e criminali. La sola ricerca attendibile sulla recidiva ci dice che, per chi sconta interamente la pena in carcere, la reiterazione del reato sfiora il settanta percento. Patogena in quanto genera malattia, autolesionismo, morte.

Il tasso di suicidi, secondo uno studio condotto insieme al professor Giovanni Torrente, è superiore di sedici-diciassette volte rispetto a quello registrato nella corrispondente fascia d’età tra le persone libere. Da qui la convinzione profonda che il carcere vada abolito. Nel 2015, con Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta, abbiamo scritto un libro con questo titolo: Abolire il carcere. Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini, pubblicato da Chiare Lettere, di cui stiamo curando una nuova edizione per i primi mesi dell’anno. Dico subito che la nostra non è una provocazione né un palpito profetico. È, invece, un programma politico e una strategia normativa. Abolire il carcere significa, cioè, mettere in atto una serie di misure e provvedimenti capaci progressivamente ma concretamente di rendere la cella superflua, di ridurre la sua apparente necessità e ineludibilità: e di lavorare affinché costituisca davvero l’extrema ratio.

Quando, qualche tempo fa, mi capitò di essere Sottosegretario alla Giustizia con delega al carcere, insieme al magistrato Sebastiano Ardita, responsabile dell’ufficio Detenuti e trattamento del DAP, commissionammo un’indagine che evidenziò come la quota di reclusi “socialmente pericolosi” superasse di poco il dieci percento dell’intera popolazione detenuta. Per quella minoranza il carcere rappresenta, probabilmente, la sola possibile misura di contenimento. Ma per tutti gli altri? Un programma alternativo è possibile, secondo i seguenti punti. Depenalizzazione. Va prevista una depenalizzazione generale, che sostituisca la sanzione penale con quella amministrativa o civile rispetto a reati non espressione di una particolare pericolosità dell’autore, e per il contrasto dei quali l’adozione di misure alternative non penali possa ritenersi sufficientemente dissuasiva. Decarcerizzazione. Il ricorso al carcere dev’essere limitato ai delitti di gravità e pericolosità tali da far temere il “pericolo della libertà” del loro autore. In sostituzione vanno previste la detenzione domiciliare o sanzioni interdittive, prescrittive e pecuniarie. In alcuni ordinamenti, quali quello tedesco, greco e danese, l’ambito di applicazione della multa è talmente ampio (si stima dell’85% delle pene irrogate in Germania), da limitare le pene detentive ai soli condannati socialmente pericolosi (stimati al 15% nella stessa Germania). Va da sé che le sanzioni pecuniarie debbano essere modulate in rapporto alla capacità economica dei condannati.

Una ulteriore e drastica riduzione della popolazione detenuta si può ottenere attraverso misure che riguardino tre “gruppi” vulnerabili, particolarmente numerosi nelle carceri: tossicomani, pazienti psichici, stranieri che, privi di regolari titoli di ingresso e soggiorno in Italia, finiscono col precipitare, per varie ragioni, nell’illegalità e nel circuito penale. Se questi provvedimenti e la prospettiva nella quale vanno inseriti appaiono irrealizzabili è solo perché manca la volontà politica di tradurli in concreti progetti di riforma. E manca la consapevolezza di un dato generalmente trascurato, eppure rivelatore: la Costituzione non parla mai di carcere, né di pena detentiva. Anche se i costituenti conoscevano solo il carcere, forse l’avevano conosciuto tanto bene sulla propria pelle da non voler aggettivare le pene, lasciando campo libero a un legislatore che volesse cambiare radicalmente la fisionomia delle sanzioni. Siamo dunque autorizzati a osare. O, almeno, a sperare. Auguro un grande successo a Nessuno Tocchi Caino. (Ha collaborato Lucrezia Fortuna)

* Intervento al Congresso di Nessuno tocchi Caino