Con l’aumento degli sbarchi la stampa italiana è tornata a parlare di saturazione del sistema di accoglienza per i richiedenti asilo e i rifugiati in Italia. Stabilire la realtà dei fatti è però ben più complesso di quanto appare; un’accurata analisi sui dati forniti dal Ministero dell’Interno pubblicata dal mensile Altreconomia l’8 febbraio scorso dava atto del progressivo esaurirsi dei posti disponibili, sia nei CAS (Centri di accoglienza straordinari) sia nel SAI (sistema di accoglienza ed integrazione), già SPRAR prima del 2020, il modello virtuoso di accoglienza diffusa gestito dagli enti locali, sul quale tornerò in seguito.

Nell’eccellente rapporto “Il vuoto dell’accoglienza” edito, sempre a febbraio ‘23, da Action Aid e Openpolis, si evidenziava che al 31 dicembre 2022 il sistema di accoglienza aveva, come già accaduto nel 2021, 2020, 2019 e 2018, oltre 20mila posti liberi; un dato sconcertante se si considera che da anni migliaia di richiedenti asilo, specialmente quelli che arrivano via terra e che si presentano spontaneamente a fare domanda di asilo, rimangono anche per mesi in stato di abbandono sulla strada per un’asserita mancanza di posti disponibili. Mancanza di trasparenza e di programmazione sono gli elementi caratterizzanti il sistema pubblico di accoglienza in Italia: l’art. 16 del D.Lgs 142/2015 prevede che il Tavolo di coordinamento istituito presso il Ministero dell’Interno “predispone annualmente, salva la necessità di un termine più breve, un Piano nazionale per l’accoglienza che, sulla base delle previsioni di arrivo per il periodo considerato, individua il fabbisogno dei posti da destinare alle finalità di accoglienza”.

Se è evidente che la programmazione in questo campo rimane esposta ad alcuni fatti imprevedibili, va però abbandonata l’ingenua ma radicata concezione che programmare sia impossibile. All’esatto contrario, ciò è possibile ed è la più importante operazione che l’Esecutivo è tenuto a fare sulla base dei dati e delle analisi condotte a livello internazionale. Il numero dei rifugiati è in costante aumento in Europa e nel mondo almeno da un decennio: secondo i dati forniti dall’Agenzia per l’Asilo dell’Unione Europea (EUAA) nel 2022 si è avuto un aumento del 50% delle domande di asilo rispetto al 2021. I richiedenti più numerosi sono i siriani (132mila) e gli afghani (129mila), seguiti al terzo posto dai turchi con 55mila domande. Il Governo italiano, sia quello in carica, che il precedente Governo Draghi, disponeva di tutti i dati necessari per realizzare una programmazione del sistema di accoglienza finalizzata ad aumentare i posti di accoglienza nel corso del 2022, conoscendo anche le principali nazionalità e quindi le rotte di fuga dei rifugiati (sapendo quindi che, oltre alla rotta mediterranea, era necessario operare un immediato rinforzo in relazione alla rotta terrestre).

Nulla di tutto ciò è avvenuto e chi volesse leggere il documento di programmazione sopraccitato rimarrebbe deluso non perché i criteri e le valutazioni in esso contenuti sono carenti, bensì perché tale documento non esiste, o non è pubblico e quindi non valutabile. Come ha evidenziato lo studio di Openpolis, tra il 2018 e il 2021 il sistema italiano di accoglienza è andato progressivamente diminuendo invece di aumentare, passando (dati Ministero dell’Interno) dai 169mila posti nel 2019 ai soli 97mila posti del 2021 per risalire appena un po’ nel 2022 con 104mila presenze a dicembre 2022 (di cui solo 33mila nel SAI e 71mila nei CAS). Tra il 2018 e il 2021 il sistema di accoglienza ha subito una continua ed incessante opera demolitoria, sia in quantità che in qualità; ne hanno fatto le spese soprattutto le strutture CAS più piccole, con meno di 20 posti letto, proprio quelle che, già a partire dalla scelta abitativa, cercavano di avvicinarsi agli standard dell’accoglienza diffusa del SAI e che andavano salvaguardate come prezioso ponte tra i due sistemi. “Tra il 2018 e il 2021 i CAS di piccole dimensioni hanno perso 24.000 posti letto. Un mancato investimento sull’accoglienza diffusa e la volontà di puntare su centri di grandi dimensioni dove i servizi per favorire l’integrazione sono scarsi o assenti” sottolinea il rapporto di Openpolis.

La demolizione, che ha prodotto un enorme sperpero di risorse pubbliche, è stata giustificata proprio con l’obiettivo di contrarre i costi che si sono attestati, con un leggero rialzo nel 2021, attorno ai 26 euro al giorno a persona, insufficienti per assicurare tutti i servizi sia quelli relativi all’accoglienza materiale che quelli relativi alla tutela legale, all’assistenza psicologica, ai corsi di italiano, alle attività di inserimento sociale etc. Le strutture di accoglienza per i richiedenti asilo, quando le gare non sono andate deserte, sono divenute sempre più strutture dismesse come vecchie caserme e capannoni in disuso), luoghi di parcheggio, degrado e segregazione sociale. Nei CAS, salvo qualche rara eccezione, le persone sono lasciate in balia di se stessi con una vita vissuta nella più totale inattività; in queste strutture è previsto un operatore sociale ogni 50 ospiti (di fatto non un operatore ma un semplice guardiano), il tempo medio per la mediazione linguistica è precipitata a 1,7 minuti al giorno per ospite, l’assistenza legale, servizio indispensabile per persone che affrontano una procedura complessa di esame della loro domanda di asilo, è ancora più rarefatta; quasi assenti i corsi di italiano, mentre totalmente assenti i percorsi di formazione e riqualificazione professionale.

I mali del sistema di accoglienza italiano sono radicati nel tempo, fin da quando, tra il 2002 e il 2005, si definì una sorta di “modello binario” che cristallizzò l’esistenza di due sistemi per richiedenti asilo totalmente difformi tra loro quanto a impostazione, standard di funzionamento e durata: da un lato lo SPRAR (oggi SAI) e dall’altro i CAS (centri di accoglienza straordinari). Dieci anni dopo, il decreto legislativo n. 142/2015 tentò di superare il caos prevedendo che, una volta esaurita (ove necessaria) la fase del soccorso e della prima accoglienza in centri governativi destinati alla sola identificazione e verbalizzazione della domanda, il richiedente dovesse essere trasferito in una delle strutture SPRAR destinato a divenire dunque il sistema unico con modalità di accoglienza diffusa e integrata con il territorio. Solo in caso di temporanea indisponibilità di posti nei centri della rete SAI il richiedente asilo, secondo la norma vigente, può temporaneamente rimanere in strutture temporanee quali sono i CAS che sono tenuti ad erogare solo “servizi essenziali” (art. 11 co.2 del d.lgs 142/15) per “il tempo strettamente necessario” (art. 9 co.5) in attesa del trasferimento nello SAI.

Sin da subito però le cose sono andate diversamente: i centri straordinari sono divenuti del tutto ordinari e stabili, rappresentando quasi il 70% di tutte le strutture e lo SPRAR, al pari oggi del SAI, è rimasto un programma secondario, con una distribuzione disomogenea e aleatoria nel territorio nazionale (vi sono regioni del nord nel quale il SAI assicura meno del 20% e talvolta persino meno 10% di tutto il fabbisogno di accoglienza). A causa della mancanza di posti nel SAI i richiedenti asilo, salvo casi particolari, non vengono dunque affatto trasferiti dai CAS al SAI, bensì rimangono confinati per anni nei centri-parcheggio rendendo del tutto inapplicata la norma primaria e creando un sistema con standard generali bassissimi. Il superamento progressivo dei CAS è stato un obiettivo destinato a fallimento perché basato su un presupposto giuridico errato ovvero sulla possibilità di un’adesione volontaria degli enti locali allo SPRAR (e oggi al SAI). Quando, anche con un forte coinvolgimento del sottoscritto, il sistema nacque nel lontano 2002, era inevitabile iniziare su base volontaria, ma con l’evoluzione ventennale che ha visto l’Italia divenire paese di asilo, quella norma sperimentale avrebbe dovuto essere modificata per renderla pienamente aderente al nostro impianto costituzionale.

Infatti secondo l’art. 118 della Costituzione tutti i tipi di funzioni amministrative in qualsiasi materia spettano ai Comuni; la legge può attribuire una determinata funzione amministrativa a un ente diverso (provincia, regione, stato) qualora sussistano esigenze unitarie, sulla base dei principi di adeguatezza, differenziazione e sussidiarietà. Tali “esigenze unitarie” sono senz’altro molto forti in relazione alle misure di prima accoglienza e soccorso che soltanto le amministrazioni dello Stato hanno le forze e capacità “adeguate” a gestire, specie in caso di arrivi consistenti e concentrati in poche aree geografiche. Al di fuori di ciò le esigenze di unitarietà in materia di accoglienza si riducono però alla sola definizione di procedure e standard uniformi da assicurare in tutto il territorio nazionale, mentre l’effettiva concreta realizzazione delle misure di accoglienza dei richiedenti asilo dovrebbe avvenire tramite gli enti locali, come previsto per qualunque altro tipo di servizio sociale.

Così non è stato, poiché si è inseguita un’impossibile sintesi tra l’istituzione di un sistema di accoglienza centrato sul ruolo dei comuni che si voleva “unico” e la natura di adesione volontaria allo stesso: una contraddizione giuridica insanabile. Ancora nel 2022 il numero di richiedenti asilo e dei rifugiati per abitante in Italia rimane al di sotto della media europea (che è di 1.973 persone per milione di abitanti secondo i dati Eurostat). Non c’è quindi alcuna saturazione nell’accoglienza dei richiedenti asilo e ancor meno dei pochi rifugiati che vivono in Italia, bensì c’è la necessità di porre rimedio urgente a una normativa contraddittoria che dopo 20 anni continua a produrre distorsioni profonde, separando artificiosamente e in contrasto con l’ordinamento costituzionale, l’accoglienza dei richiedenti asilo dal sistema dei servizi socio-assistenziali del territorio. Il sistema nazionale di accoglienza viene così mantenuto in una condizione eternamente emergenziale e caotica che produce immensi danni al diritto d’asilo e al Paese, ma che probabilmente giova al mantenimento di molti ed inconfessabili interessi.