La tragedia di Cutro e un governo “disumano” delle migrazioni. Il Riformista ne discute con il professor Massimo Livi Bacci. Docente di Demografia alla facoltà di Scienze politiche dell’Università di Firenze, dal 1973 al 1993, Livi Bacci è stato segretario generale e presidente della International Union for the Scientific Study of Population (IUSPP), società scientifica di studi demografici di cui è poi divenuto presidente onorario.

Il naufragio di Cutro ha riacceso i riflettori sulla tragedia dei migranti. Anzitutto, è giusto, corretto, usare la parola “tragedia” di fronte a naufragi in mare che si ripetono nel tempo?
Non esito a chiamarla tragedia. Ci sono le scelte drammatiche delle vittime, la disperazione dei genitori e dei parenti, i sensi di colpa degli astanti, la malvagità di chi si è fatto attore e strumento di rischiose navigazioni, l’indifferenza degli stati, la natura in tempesta. Di tragedie si tratta, che avvengono in un mare solcato da migliaia di navi e natanti, sorvolato da innumerevoli aerei, sorvegliato da migliaia, milioni di occhi elettronici, circondato da paesi capaci di portare rapidamente soccorso dove questo venga richiesto. Non sono questi gli elementi classici della tragedia?

“Non nascondete le colpe di chi li ha lasciati morire”. Così l’Arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice. “Si aprano una volta per tutte i tanto attesi corridoi umanitari, si agisca sul diritto di asilo, si lavori sull’integrazione”, invoca l’alto prelato. Perché non lo si è fatto?
Lasciamo da parte il tema dell’integrazione, un tema molto complesso che deve essere affrontato con una pluralità di interventi del sistema pubblico e di quello privato, che non può affrontarsi solo con decreti, regolamenti e risorse monetarie. In Europa, e in Italia, ci sono molte buone pratiche che possono essere migliorate e diffuse. Ci si può lamentare che esse non siano più diffuse, che non vengano moltiplicati gli sforzi in settori cruciali. Penso ad esempio alla scuola e alla formazione e alle centinaia di migliaia di scolari e studenti stranieri o figli di stranieri, risorse preziose da valorizzare al massimo. Quanto ai “corridoi umanitari” e al “diritto di asilo” sono in realtà facce di uno stesso problema. Che semplicemente detto può così declinarsi: come fa un perseguitato, discriminato, vessato, che rischia torture o morte, a esercitare il proprio diritto a presentare richiesta di asilo o altra forma di protezione internazionale se non gli è consentito – da barriere di ogni tipo – di raggiungere il paese nel quale sia possibile presentare tale domanda? È come se si impedisse a un infortunato di raggiungere il pronto soccorso dove avrebbe titolo per farsi curare. L’idea dei “corridoi umanitari” per potenziali richiedenti asilo è una possibilità, ma dipende dalla volontà delle parti belligeranti.

In Italia si discute e si polemizza sul presunto “pull factor” rappresentato dalle navi Ong che agiscono nel Mediterraneo.
La posizione della destra sulle Ong nel Mediterraneo è o ingenua o miserabile. L’argomentare che l’esistenza delle navi delle Ong sia un fattore di attrazione della migrazione, e che quindi esse siano indirettamente, o addirittura direttamente responsabili, delle morti in mare è come dire che la presenza dei bagnini sulle spiagge invita le persone a fare il bagno anche in condizioni di pericolo e quindi è responsabile delle morti per affogamento. Solo gli ingenui o i poveri di spirito possono credere a simili panzane. Precludere, vietare o intralciare l’attività di soccorso delle navi Ong, significa prima di tutto la negazione del principio fondamentale, che si perde nella notte dei tempi, secondo cui “il comandante di una nave ha l’obbligo di prestare soccorso a chiunque sia trovato in mare in pericolo di vita e è, altresì, tenuto a procedere, con tutta rapidità, all’assistenza di persone in pericolo in mare, di cui abbia avuto informazione”. Punto. Il resto è miserabile cortina fumogena su un punto fondamentale di civiltà.

Poco o nulla invece si dice e, soprattutto, si fa per intervenire sui “push factor”, i fattori di spinta alle migrazioni.
I “push factor”, i fattori di spinta dell’emigrazione, sono numerosi come i granelli di sabbia, e sono tutti quei fattori che rendono ardue, precarie, insopportabili le condizioni di vita in un determinato paese. Fame, salute, mancanza di risorse, di lavoro e di prospettive sono le maggiori forze motrici dei fattori di sviluppo. I paesi e la comunità internazionale sono perfettamente consapevoli della necessità di politiche di cooperazione che incentivino lo sviluppo; la UE ha prodotto serie di ottimi dossier su questo tema. Ma si tratta di operazioni di lunghissimo periodo, che richiedono risorse ingenti e continuità di azione, che devono coinvolgere i paesi di origine dei flussi, integrare l’apertura di flussi legali con il sostegno allo sviluppo, creare reti di cooperazione culturale, scolastica e universitaria, costruire solidi partenariati. Purtroppo nella UE, ad esempio, non c’è unità d’intenti tra i vari paesi, che si contendono le zone d’influenza, e che hanno interessi divergenti.

La scienza demografica documenta un trend che appare inarrestabile: l’Europa è un continente invecchiato. Ma una Europa “incanutita” non dovrebbe guardare ai migranti, in stragrande maggioranza giovani, come una risorsa, una ricchezza e non come una minaccia da espellere?
Guardiamo all’Italia, ma il discorso riguarda anche l’Europa nel suo insieme. Cominciamo col profondo cambio della struttura per età e dei rapporti tra generazioni, in particolare tra adulti in grado di produrre, lavorare e sostenersi, e anziani che non producono, non lavorano e necessitano sostegno. Nel 2022 c’erano 2,7 giovani-adulti (dai 15 ai 65 anni) per ogni anziano (oltre i 65); nel 2050 ce ne saranno appena 1,5. Sono evidenti gli effetti di questi mutamenti sul bilancio pubblico, sui trasferimenti sociali, sulla travagliata questione della ripartizione di questi tra pensioni, assistenza e sanità. Grande rilevanza riveste la forte crescita degli anziani, e in particolar modo dei molto anziani, e della componente della popolazione con fragilità, disabilità, invalidità, che necessita assistenza. Tra oggi e il 2050 le persone con più di 85 anni quasi raddoppieranno (da 2,2 a 4,1 milioni) e con analoga rapidità aumenteranno le persone in difficoltà, cui la società dovrà provvedere con costi molto alti, privati e pubblici. Basti pensare alle previsioni d’incremento degli ammalati per demenza senile e Alzheimer. Nonostante che miglior salute, più efficienti cure mediche e, un crescente grado di istruzione possano rallentare gli effetti negativi della vecchiaia, i numeri sono tali da determinare un forte aumento dei gravami sociali indotti dall’aumento della longevità. Nel medio-lungo periodo si verificherà anche una contrazione di 9 milioni della popolazione in età attiva (tra i 15 e i 65 anni), pur alimentata dalla rilevante immigrazione prevista. Poiché gli attivi anziani sopravanzeranno quelli più giovani, la produttività del sistema risulterà frenata. Insomma, poiché gli anziani sono meno produttivi e innovativi dei giovani, e i primi aumentano mentre i secondi diminuiscono, si genera un handicap rispetto a società con maggiore equilibrio tra generazioni. Ampliando il discorso sulla produttività, si può anche affermare che le capacità di invenzione, di innovazione, di fare impresa, di assumere dei rischi, sono prerogative dei giovani, e la riduzione del loro peso demografico nella collettività esplica, per questa via, una funzione di freno allo sviluppo. Tutti questi elementi fanno ragionevolmente ritenere che il nostro paese abbia bisogno, nei prossimi due o tre decenni di una forte immigrazione, dello stesso ordine di grandezza di quella avvenuta nel primo decennio del secolo (un saldo netto di migranti anno di trecentomila unità), quando, peraltro, la demografia era meno debole di oggi.

Assieme alla guerra, uno dei “push factor” più forti alla base delle migrazioni è legato ai disastri ambientali. Non crede che sia giunto il tempo che sia esteso anche ai “migranti ambientali” lo status di rifugiato che oggi riguarda quanti fuggono dalle guerre?
Direi di no. Il concetto di “migrante ambientale” è molto ambiguo, a meno che non si tratti di catastrofi naturali – terremoti, eruzioni vulcaniche, inondazioni, siccità eccezionali – che necessitano interventi urgenti e veloci. Gli stessi rapporti dello IPCC indicano che l’occorrenza di gravi episodi di desertificazione tali da indurre alla migrazione possano riguardare, nel futuro aree dell’Africa sub-sahariana, abitate da popolazioni di due o trecento milioni di abitanti, tra i quali qualche decina di milioni – per lo più pastori e popolazioni seminomadiche – sono i più vulnerabili. Ma sono fenomeni graduali, migrazioni che in gran parte si esauriranno all’interno dei singoli paesi. Vittime del clima sono anche le popolazioni dei Caraibi devastati, ogni anno, dagli uragani oppure quelle dell’America centrale colpite ciclicamente dalle conseguenze del Niño…Meglio, molto meglio, investire in politiche di “adattamento” al cambio climatico anziché appesantire di un’altra categoria la difficile normativa che regola i flussi “classici” di profughi e rifugiati.

Professor Livi Bacci nel suo passato c’è anche una importante esperienza politica, da senatore della Repubblica. Che immagine di sé dà la politica di fronte a tragedie come quella che si è consumata sulle coste calabresi?
L’immigrazione è una patata bollente. Nessuno vuole scottarsi le mani. Meglio un requiem.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.